Un Foglio internazionale
L'Europa industriale di fronte al suo destino
Perché la crisi energetica aumenta il divario economico con gli Stati Uniti e accentua i rischi di dissenso tra i membri dell’Unione. La versione di Nicolas Baverez su Le Point
L’esito della guerra in Ucraina dipende dallo svolgimento dalle operazioni militari, che vedono la dislocazione dell’esercito russo ma anche la resistenza delle società europee dinanzi alla guerra ibrida portata avanti da Mosca, e in particolare dinanzi alla crisi energetica” scrive Nicolas Baverez. “L’Europa è effettivamente il continente più colpito dal terremoto che ha moltiplicato per dodici il prezzo del gas e che costituisce un prelievo del 6 per cento sul suo pil, ossia il doppio degli choc petroliferi degli anni Settanta. Lo stravolgimento è già effettivo. L’attività manifatturiera è in flessione da quest’estate e la recessione si propaga in tutti i settori. La bilancia commerciale della zona euro, eccedente per 121 miliardi nel primo semestre del 2021, conta un deficit di 177 miliardi per lo stesso periodo nel 2022. Esiste nuovamente un rischio finanziario sistemico, sia a causa dei fallimenti nel settore dell’energia, come Uniper, che la Germania ha dovuto nazionalizzare per 8 miliardi di euro, sia per il sovraindebitamento degli stati, come dimostrano le tensioni sul debito italiano, che potrebbero rilanciare la crisi della zona euro o il panico che si è abbattuto sul Regno Unito. La crisi energetica, soprattutto, crea un rischio economico e un rischio politico in ragione del divario che si sta allargando tra gli Stati Uniti e l’Europa da un lato e tra stati membri dell’Unione dall’altro.
Allineate sul piano strategico da adottare dinanzi a Mosca, le due rive dell’Atlantico divergono sul piano economico. Nonostante stia attraversando una recessione tecnica derivante dall’aumento dei tassi di interesse, l’America esce rafforzata dalla guerra in Ucraina: è autonoma nel campo dell’energia; domina i settori delle tecnologie e dell’armamento; pilota la gestione delle crisi, che si tratti della risposta agli imperi autoritari o della lotta contro l’inflazione. L’Europa, al contrario, subisce frontalmente lo choc energetico per via della sua dipendenza, mentre la Banca centrale europea si trova di fronte a un dilemma infernale: seguire la Fed nell’aumento dei tassi d’interesse col rischio di amplificare la recessione senza ridurre l’inflazione importata; rinunciare a inasprire troppo velocemente la politica minoritaria col rischio di radicare la stagflazione e accelerare la caduta dell’euro. L’Europa si trova dunque minacciata da una fuga delle sue industrie, dei suoi posti di lavoro e dei suoi capitali verso gli Stati Uniti. Avrà bisogno di diversi anni per compensare lo stop delle forniture di gas russo, durante i quali l’energia sarà razionata e molto costosa. La pressione sul potere d’acquisto delle famiglie limiterà la crescita. L’handicap di competitività che deriverà dal prezzo dell’energia cinque volte superiore a quello negli Stati Uniti provocherà perdite massicce in termini di produzione, ma, soprattutto, un vasto movimento di delocalizzazione dell’industria europea, a cui lo choc energetico potrebbe assestare il colpo di grazia. In una globalizzazione che si frammenta attorno a blocchi ideologici, le fabbriche non andranno più in Cina, ma in America.
E questo avverrà anche perché si riposiziona all’avanguardia della transizione ecologica, beneficiando del piano Biden da 369 miliardi di dollari, oltre ai 110 miliardi di investimenti già sbloccati. La divisione mina l’Unione europea, soprattutto dall’annuncio da parte della Germania di un piano di sostegno da 200 miliardi di euro, finanziato dal debito attraverso il fondo di stabilizzazione creato nel 2020 per lottare contro la pandemia. Destinato in priorità alle imprese, questo program ma va ad aggiungersi a un piano da 100 miliardi per un aiuto totale dell’8 per cento del pil. Allo stesso tempo, Berlino blocca il tetto al prezzo del gas e la riforma del mercato europeo dell’elettricità. Mario Draghi, seguito da Pedro Sánchez e Thierry Breton, ha lanciato l’allarme a giusto titolo sulle distorsioni generate dalla concorrenza tra i piani di sostegno nazionali in funzione della force de frappe budgetaria degli stati. Ciò si traduce in gravi rischi di frammentazione del mercato unico, di choc sulla zona euro in caso di fuga in avanti nelle misure di lotta contro l’inflazione che si elevavano a più di 500 miliardi di euro prima del piano tedesco, e infine di esacerbazione della rabbia sociale (…). E’ giunto il tempo per l’Unione europea e i suoi membri di trarre le dovute lezioni dalla pandemia, privilegiando l’unità rispetto alla disunione.
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