un foglio internazionale
Il ritorno del marxismo nella Cina di Xi
Finita l’epoca del pragmatismo, regna di nuovo, sotto mentite spoglie, l’ideologia comunista. L’analisi dell’ex premier australiano Kevin Rudd
"Nel 1978, il leader cinese Deng Xiaoping annunciò che il suo paese avrebbe rotto con il passato. Dopo decenni di epurazioni, autarchia economica e un controllo sociale soffocante sotto Mao Tse-tung, Deng iniziò a stabilizzare la politica, rimuovendo il veto sulle aziende private e gli investimenti stranieri e dando maggiore libertà agli individui nella sfera privata”. Così inizia il lungo saggio di Kevin Rudd, ex premier australiano e grande esperto di politica cinese, sulla rivista Foreign Affairs. Con questa svolta, soprannominata “riforma e apertura”, la Cina ha migliorato i rapporti con l’occidente, sollevato milioni di persone dalla povertà, e inaugurato un modello di leadership più collegiale.
Il ventesimo congresso del Partito comunista cinese poche settimane fa ha segnato la fine di questa èra, consentendo a Xi di governare per un terzo mandato – un fatto senza precedenti – ed epurare gli ultimi funzionari a favore del libero mercato dai vertici del Pcc. “Il mondo nuovo statalista di Xi si è affermato”, scrive Rudd. Secondo il politico australiano, gli osservatori devono analizzare la Cina in modo diverso. In passato, gli occidentali credevano che, quando i leader cinesi parlavano in modo ideologico, non andassero presi sul serio. Non è più così, sostiene Rudd: “Il presidente cinese crede profondamente nel marxismo-leninismo, la sua ascesa certifica il ritorno su scala mondiale dell’Uomo Ideologico”.
C’è stato un cambio netto alla base dell’ideologia del Pcc. I predecessori di Xi credevano che “la pace, lo sviluppo”, e il mantenimento dei buoni rapporti con il resto del mondo fossero le vie maestre. I vertici del partito credevano che questo fosse il pretesto per sviluppare l’economia cinese. Ma oggi non è più così, Questa svolta si manifesta in diversi modi: nella repressione del dissenso, nel controllo del partito sulla vita privata dei cinesi, nell’approccio statalista all’economia e in una politica estera sempre più assertiva. Al giorno d’oggi la “sicurezza nazionale” viene descritta come la base del “ringiovanimento nazionale”. Il messaggio di Xi è che il partito deve essere pronto a combattere una guerra; e questo attivismo in politica estera va di pari passo a un controllo sempre più rigido sul popolo cinese.
Nel Partito comunista cinese le parole hanno un peso, sostiene Rudd, che analizza le espressioni più pronunciate da Xi nel suo discorso al ventesimo congresso del partito. Nel suo rapporto in occasione del quattordicesimo congresso, Deng pronunciò la parola “economia” 195 volte; Xi l’ha usata solamente sessanta. Al contrario, la parola “sicurezza nazionale” fu pronunciata solo una volta nel 1992; quest’anno ventisette. Il termine cinese per “stato dominante”, ovvero qiangguo, compare 23 volte quest’anno, rispetto a 19 nel 2017 e solo due nel 2002. Questo indica che, a differenza dei regimi precedenti che davano priorità allo sviluppo economico, il partito oggi è più concentrato che mai sul nazionalismo e la sicurezza nazionale.
Anche la parola “marxismo” compare molte volte nel rapporto di Xi, ed è circondata da un linguaggio che indica come Xi si stia attrezzando per un conflitto. Il concetto marxista-leninista di “lotta” – finalizzato a risolvere le contraddizioni della società domestica e internazionale – viene menzionato ventidue volte, e si riflette in alcuni gesti simbolici. Ad esempio, dopo il termine del congresso, Xi ha portato i membri appena eletti del comitato più potente del Politburo in gita a Yan’an, il luogo dove si trovava Mao durante la guerra civile contro i nazionalisti cinesi e il conflitto contro il Giappone. A Yan’an si è svolto anche il congresso che ha certificato la leadership di Mao del Partito comunista, e che è stato precursore della seconda guerra civile contro i nazionalisti, poi costretti a fuggire a Taiwan. Le analogie con il presente sono chiare. Come Mao, Xi ha assunto il controllo totale del partito e si prepara a rinnovare il conflitto con il vecchio nemico: i separatisti a Taiwan.
Il ventesimo congresso del partito passerà alla storia per avere incoronato Xi come “leader del Comitato centrale” e dichiarato che il socialismo cinese è “il nuovo marxismo del Ventunesimo secolo”. Il presidente cinese ha epurato gli ultimi esponenti riformisti, incluso il suo predecessore Hu Jintao – usando come pretesto il fatto che avessero raggiunto l’età per andare in pensione – e promosso gli uomini a lui più vicini, anche se più anziani. Questa ossessione per la centralizzazione si riflette anche nelle politiche economiche, nel suo ripudio per l’economia di mercato e nella svolta statalista. Il presidente cinese utilizza un linguaggio apertamente marxista; il suo rapporto sostiene che i membri del partito devono “comprendere la visione del mondo e la metodologia marxista-leninista” e applicare gli “strumenti analitici del materialismo dialettico e storico” per capire le grandi sfide del nostro tempo, anche in materia di politica estera. Il Partito comunista di oggi si sente a proprio agio nell’utilizzo di un linguaggio belligerante, e dice apertamente di prepararsi alla guerra.
“Queste svolte ideologiche, la retorica che le accompagna, e la rotta politica che ne deriva – conclude Rudd – significano che la Cina sta archiviando decenni di pragmatismo politico, economico e in politica estera. La Cina di Xi oggi è assertiva. Lui è meno ambiguo dei suoi predecessori, e il suo modello ideologico per il futuro è chiaro a tutti. La domanda che ci riguarda da vicino è se i suoi piani prevarranno o genereranno i loro stessi anticorpi, sia in patria che all’estero, che si contrapporranno alla visione di Xi per la Cina e per il mondo. Ma poi, da buon praticante della dialettica marxista, Xi Jinping sta probabilmente già anticipando quella risposta – e sta preparando le contromisure necessarie”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)
Il Foglio internazionale