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Un Foglio internazionale

Ombre cinesi sulla Silicon Valley

La crisi del Big Tech pone una domanda esistenziale per gli Stati Uniti: riusciranno a evitare il sorpasso di Pechino? Qualche dato a favore del sistema americano

Elon Musk è entrato nel quartier generale di Twitter a San Francisco il 26 ottobre portando un lavandino, che gli ha consentito di twittare ‘Let that sink in’ (in inglese la parola “sink” significa letteralmente lavandino ma la frase vuol dire: “Mettetevelo bene in testa”, ndt) dopo aver acquistato il social network per 44 miliardi. Sembra passato un secolo da quel nuovo inizio”. Così comincia l’analisi di Jeremy Cliffe sul magazine britannico New Statesman.

“Musk ha licenziato circa la metà dei dipendenti di Twitter, chiesto dei cambiamenti immediati e scoperto in tempo reale che l’azienda è un ecosistema più complesso di quanto pensasse. I cambiamenti repentini hanno causato problemi tecnici. Alcuni impiegati indispensabili sono stati fatti rientrare. Varie aziende hanno smesso di pagare la pubblicità. Sono trapelati rumour di un caos interno e addirittura di una bancarotta imminente. Dopo aver creduto che il controllo di Twitter lo avrebbe reso il più figo della classe, Musk ora assomiglia a un insegnante supplente che ha perso il controllo della classe”. 

Ma secondo Cliffe, le bizze di Musk raccontano solo una parte della storia. Il problema di fondo è la crisi della Silicon Valley.

“Le aziende dietro le Big Five – Google, Facebook, Amazon, Apple e Microsoft – hanno perso collettivamente almeno 3 mila miliardi di valore quest’anno. Le aziende tecnologiche americane hanno perso circa 28 mila posti di lavoro. In parte questa è una compensazione dopo il grande exploit del Big Tech durante la pandemia, quando il lockdown ha spostato le attività sociali e commerciali delle persone online e in casa. Ma sono in atto dei fattori strutturali più profondi. L’èra dei tassi d’interesse bassi è finita. I regolatori e gli utenti sono diventati più stringenti quando si tratta di privacy, protezione dei dati e pratiche monopolistiche. Gli introiti pubblicitari sono calati e ci sono tante incertezze riguardo al modello commerciale in futuro: un anno fa Mark Zuckerberg ha cambiato nome a Facebook, che ora è Meta, scommettendo sulla realtà virtuale; nel 2022 l’azienda ha perso il settanta per cento del suo valore di mercato.
Questa non è solamente una storia tecnologica. La Silicon Valley è un pilastro del potere americano: nel suo peso economico, nel suo potere culturale e nella ricerca e sviluppo all’avanguardia nell’ambito del big data e dell’intelligenza artificiale. La sua crisi si lega a una delle grandi questioni geopolitiche del Ventunesimo secolo: gli Stati Uniti riusciranno a mantenere il primato sulla Cina? Questa è una sfida tra sistemi radicalmente diversi: tra la società americana democratica, individualista e aperta e quella cinese autocratica, collettivista e chiusa. La rapida ascesa della Silicon Valley è stato un trionfo del sistema americano. Circa due terzi dei lavoratori erano nati fuori dagli Stati Uniti, una prova di come il paese riesca ad attrarre i talenti di tutto il mondo.

Il capitalismo è radicalmente innovativo (…) La Silicon Valley è la quintessenza dei tratti che, sperano gli Stati Uniti e i suoi alleati, sosterranno la superpotenza americana negli anni a venire. Questo ci riporta a Twitter. Oltre al caos, Musk ha indicato che intende rendere il social network una ‘piazza digitale’ e un ‘collettivo cibernetico super intelligente’. La sua visione è tagliare sulla moderazione dei contenuti nel nome della libertà di stampa; obbligare gli utenti a verificare le loro identità e pagare per utilizzare il sito; e nel lungo termine trasformare Twitter in ‘un’app del tutto’, un equivalente americano del WeChat cinese, che mette insieme social network, pagamenti, messaggistica, shopping e gaming.

Ma questa strategia è intrisa di tensioni che raccontano i problemi della Silicon Valley e il loro significato per il sistema americano, Come mettere in pratica quello che Musk chiama ‘l’assolutismo della libertà di stampa’ senza trasformare il sito in una piattaforma senza regole?  E come riuscirci in uno stato democratico? Come spingere verso l’autenticazione proteggendo la privacy e i dati degli utenti? Come creare ‘un’app del tutto’ che non finisce nei guai con l’antitrust americano?

Il paragone con WeChat racconta un contrasto interessante: nel sistema cinese tutti questi problemi sono più semplici da risolvere. Di norma la piattaforma censura i contenuti, viola la privacy degli utenti e ha forti legami con lo stato; tanto che nemmeno la repressione di Xi Jinping contro i social media ha avuto conseguenze sull’azienda. Le difficoltà di Musk, quindi, vanno molto oltre il suo stile di gestione (per quanto questo sia fortemente legato al caos di Twitter) e implicano delle tensioni fondamentali per la Silicon Valley e il sistema americano che rappresenta. Un sistema che mette l’accento sui diritti individuali, mercati aperti e competitivi – l’essenza dei suoi punti di forza – affronta delle questioni esistenziali in un’epoca di big data e intelligenza artificiale. 

Ma anche il sistema cinese ha i suoi problemi: può essere opprimente, fragile, immobile. E i giganti del tech hanno i loro problemi. Il controllo sempre più ferreo di Xi sull’economia e la società, ad esempio, pone delle questioni esistenziali sulla capacità del paese di innovare. Alcuni eventi recenti – dalla resistenza ucraina sostenuta dall’occidente, al mastodontico pacchetto sul clima di Joe Biden alla sconfitta dei repubblicani complottisti nelle elezioni di midterm – consigliano di non sottovalutare la forza degli Stati Uniti. Con la loro hubris, spacconeria da secchioni e una voglia di affermarsi che non può essere soddisfatta dal denaro, i titani come Musk, Zuckerberg o Jeff Bezos sono facili da ridicolizzare. Ma sono semplicemente delle manifestazioni del sistema americano – un sistema di cui, pur con tutte le sue disfunzioni, non bisogna sottovalutare la resistenza e la capacità di adattamento”.

 

Traduzione di Gregorio Sorgi

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