Un Foglio internazionale
L'Ucraina deve vincere. Se cadesse, c'è da credere nella moderazione di Putin?
L’amore per la pace e la compiacenza verso la barbarie. Uno sguardo retrospettivo al pacifismo francese con lo storico Arthur Chevallier
"Bisogna avere un problema per parlarne in continuazione” scrive Arthur Chevallier, i cui ultimi libri sono “Napoléon et le bonapartisme” (Que sais-je?) e “Les femmes de Napoléon” (Grasset). “Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, gli estimatori di Vladimir Putin si sono fatti beffe dei sostenitori di Volodymyr Zelensky: degli ingenui, dei creduloni, degli imbecilli, insomma, secondo il loro vocabolario, dei democratici. Ma la guerra è andata avanti, i crimini e l’incapacità dell’esercito russo sono venuti a galla: i difensori di una linea dura contro il Cremlino non potevano più essere qualificati come degli stupidi, così sono diventati dei ‘guerrafondai’ irresponsabili, degli spacconi pronti a trascinare la Francia e l’Europa in un conflitto su vasta scala. Diverse capitali occidentali, tra cui Londra, Berlino e Washington, hanno fatto un passo in avanti accettando di inviare dei carri armati a Kiev. Gli ammiratori di Putin perseverano nella loro insolenza accusando l’ovest di provocare una Terza guerra mondiale”.
In Francia – continua Chevallier – il pacifismo, anche quello in buona fede, è minoritario. Lo scrittore Remy de Gourmont (1858-1915) ha provocato uno scandalo pubblicando “Le joujou patriotisme” nel 1891, sorta di lungo articolo dove si prendeva gioco dell’antigermanismo primario e del patriottismo di paccottiglia di una Francia impazzita dopo la sconfitta contro la Prussia. Gourmont non era né pro Germania né antifrancese, era intelligente. Non sono le cause che lo scrittore deplora, ma la sopraffazione dell’ideologia e della politica su tutte le forme della ragione e del gusto. L’indignazione è tale che Gourmont viene licenziato dalla Biblioteca nazionale dove lavorava. Nel 1914, Romain Rolland pubblica un articolo, “Au-dessus de la mêlée”, dove invita i belligeranti a riacquistare umanità, e a prendere in considerazione i disastri e i drammi di un conflitto generalizzato: “Dunque l’amore della patria dovrebbe fiorire nell’odio delle altre patrie e il massacro di quelli che si impegnano per difenderle? Questa idea è di un’assurdità feroce e di un dilettantismo neroniano che mi ripugnano nel profondo. No, l’amore della mia patria non significa che devo odiare e uccidere le anime pie e devote che amano le loro patrie”. Sì, talvolta, essere pacifisti significa essere intelligenti, e anche coraggiosi. Ma quando l’amore per la pace si trasforma in compiacenza verso la barbarie non è più accettabile. Henry de Montherlant ha risposto a Romain Rolland nel libro meraviglioso e inclassificabile “Aux fontaines au désir”, dove l’autore di “Jeunes Filles” si chiede perché l’umanità dovrebbe essere necessariamente più bella restando passiva e pacifica. Il gusto di un popolo per la guerra non deriva sempre da un desiderio di uccidere, ma da un’indignazione, da un movimento della coscienza, dall’intelligenza, dal temperamento che lo spinge a difendersi, attaccando in nome di un’emozione. Ecco qual è il dramma dei cattivi: sono stupefatti dinanzi alla gentilezza e all’empatia, e le disprezzano perché non conoscono né l’una né l’altra. Più tardi, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, lo stesso Montherlant ridicolizza la presunta saggezza dei governi fanatici della pace, i quali sono convinti, non si sa per quale motivo, che una civiltà rimanga all’altezza di sé soltanto se privilegia il suo confort, senza più ragionare. E’ “una morale da midinette”, scrive Montherlant: “Da quasi un secolo, e da vent’anni a questa parte ancor di più (1918), si inietta al nostro popolo una morale dove colui che resiste è definito ‘irrequieto’ e colui che è fiero è qualificato come ‘altezzoso’, dove l’indignazione è chiamata ‘brutto carattere’, dove il giusto sdegno è visto come una forma di ‘aggressività’, dove la lungimiranza è definita ‘cattiveria’, dove ogni uomo che tiene ai suoi princìpi, e che dice no, è considerato ‘impossibile’”.
Negoziare con Vladimir Putin significherebbe cedere a una metodologia messa al bando dal diritto internazionale, quella della canaglieria. Anche andando oltre le considerazioni morali, farlo sarebbe controproducente. “L’Ucraina – conclude Chevallier – deve vincere questa guerra, senza che questo comporti dei rischi per la Polonia, dunque per la Nato. Se Kyiv cadesse, c’è forse da credere nella moderazione del Cremlino? Di più: crediamo ancora al senso dell’onore di Putin? L’amore per Kyiv non gioca nessun ruolo nell’indignazione dell’opinione europea; quest’ultima proviene da un terrore formulato, aizzato e cristallizzato dal presidente della Russia. Le persone percepiscono la disumanità della sua potenza, la minaccia che esercita nei confronti della civiltà, la gelosia malsana che emana; e si dicono che Mosca val bene qualche carro armato.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale