Un Foglio internazionale
L'altro genocidio che cominciò nel 1915, quello armeno
Ma è davvero “finito il lavoro”? Cosa significa per gli armeni ricordare lo sterminio di un milione e mezzo dei propri figli da parte della Turchia
Il 24 aprile 1915 nell’impero ottomano iniziò lo sterminio di 1,5 milioni di armeni, uno sterminio organizzato e realizzato dai "Giovani turchi”, scrive Jean-Christophe Buisson. “Ma i loro successori al potere nel 2023 ad Ankara e Baku, in Azerbaijan, hanno davvero rinunciato a ‘finire il lavoro’? Come il console americano ad Aleppo, Jackson, scrisse all’epoca in un telegramma, "è senza dubbio un piano attentamente pianificato per estinguere completamente la razza armena". Per il solo motivo della loro nascita (ma anche della loro fede), 1,5 milioni di uomini, donne e bambini armeni sono stati sradicati dal 1915 in poi dalle regioni in cui avevano abitato per due millenni: su 1,8 milioni – armeni che vivevano nell’Anatolia orientale nel 1914 – dieci anni dopo ne erano rimasti solo 300.000. O si convertivano all’islam oppure vivevano nascosti (a volte anche sotto il tetto dei ‘giusti’ turchi). Deportati su strade della morte verso sud, verso Aleppo, fulcro della deportazione, poi verso est (negli attuali Siria e Iraq).
Ma l’obiettivo dei padroni di Istanbul non era solo quello di espellerli, di ‘ripulire’ lo spazio turco dalla loro presenza, ma anche di eliminarli fisicamente. Ordini scritti erano stati dati in tal senso e la loro applicazione era ‘esemplare’. I soldati e i gendarmi ottomani concedevano alle famiglie qualche ora per radunarsi all’uscita delle città o villaggio e formare colonne pronte a partire per essere ‘spostate’. Rapidamente, gli uomini furono separati dai gruppi da giustiziare, mentre le donne, i bambini e gli anziani, trattati come mandrie, dovevano avanzare sotto la sorveglianza dei soldati turchi (spesso a cavallo).
Una scomparsa quasi totale, una dispersione massiccia. Per fame. Sete. Malattie. Esaurimento. I cadaveri venivano gettati in burroni e fiumi. A volte i vivi si intrufolavano tra i morti, ma venovano finiti con una pallottola o un colpo di baionetta. Nessuna sepoltura. Dopo essere state stuprate, le donne venivano vendute nei mercati o si univano agli harem di qualche governatore turco locale. Gli artefici del genocidio si festeggiano nelle scuole come nelle strade della Turchia di Erdogan: Talaat Pasha ha diritto al suo viale ad Ankara e una scuola porta il suo nome a Istanbul.
A sentire il capo dello stato turco parlare degli armeni come dei ‘resti della spada’ (implicito: dell’islam), si dubita che abbiano finito. Sentendo il suo vassallo azero Ilham Aliyev affermare il suo desiderio di ‘cacciarli via come cani’ dall’Artsakh o anche dal sud dell’attuale Armenia (Syunik), viene da dubitare. A vedere anche la sua politica di distruzione delle tracce della civiltà armena nei territori conquistati durante la Guerra dei 44 giorni (settembre-novembre 2020), viene da dubitare: i turchi non fecero la stessa cosa tra il 1915 e il 1922, distruggendo 1.036 chiese e monasteri e 691 istituzioni religiose?
Il ritorno dei turchi dai Balcani, dopo le guerre perdute del 1912-1913, sconvolse la demografia locale. Guidati da Enver Pacha, Talaat Pacha e Djemal Pacha, i Giovani turchi al potere decisero, nel 1915, nel bel mezzo della guerra, di farsi spazio nel nord e nell’est dell’Impero ottomano spostando in massa gli armeni. E si trattava di eliminarli fisicamente: nei vilayets (distretti) di Sivas, Trebisonda, Dyarbekir, Baghech, Adrianopoli, Erzeroum, Van e Kharpert venne uccisa tra il 94 e il 99,8 per cento della popolazione armena. Centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini…”.