Un foglio internazionale
“Lo stato russo post sovietico poggia su ricostruzione imperiale e militarizzazione”
Oleg Orlov, oppositore al regime di Vladimir Putin, spiega i due pilastri della Russia
Oleg Orlov, uno dei fondatori dell’ong russa Memorial e copresidente del centro di difesa dei diritti umani di Memorial, è stato incriminato lo scorso 29 aprile. Dal 21 marzo, è perseguito penalmente, in virtù del nuovo articolo 280.3 del codice penale adottato nel marzo del 2022 dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che punisce con tre anni di prigione “le azioni pubbliche ripetute che mirano a screditare le forze armate che difendono gli interessi della Russia e dei suoi cittadini, così come la pace e la sicurezza internazionali”.
Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, Oleg Orlov, a più riprese, si è mostrato con un cartello che denuncia la guerra in un luogo altamente simbolico, di fronte alla Duma, un gesto forte che ricorda quello dei dissidenti sovietici. Ha pubblicato anche un articolo, “Ils voulaient le fascisme, ils l’ont eu”, apparso in francese su Mediapart, che ha condiviso, in russo, sul suo account Facebook. Vincitore nel 2009 del premio Sakharov per la libertà di pensiero, Oleg Orlov, ricercatore in biologia, ha iniziato la sua battaglia all’inizio degli anni Ottanta, producendo da solo, con l’aiuto di un poligrafo da lui stesso creato, dei manifesti contro la guerra in Afghanistan, e in seguito contro la legge marziale in Polonia nel 1981. Nel 1988, fa parte dei membri fondatori del “gruppo di iniziativa Memorial”, e in seguito, nel 1990, del centro dei diritti umani Memorial. Uomo d’azione, dotato di un grande coraggio, Orlov lavora, a partire dal 1991, alla guida del programma “Points chauds” del centro dei diritti umani nelle zone di conflitti armati, che si moltiplicano nel Nagorno-Karabakh, nel Tajikistan, in Moldavia, in Georgia e nel Caucaso del nord. Vi documenta la violazione dei diritti e i crimini di guerra. Parallelamente, come esperto presso il Comitato dei diritti umani del Soviet supremo della Federazione russa tra il 1990 e il 1993, contribuisce all’elaborazione delle leggi relative all’umanizzazione del sistema penitenziario russo e alla riabilitazione delle vittime delle repressioni politiche, legge abbondantemente calpestata da allora.
Nella seconda metà degli anni Novanta e negli anni Duemila, Oleg Orlov svolge un ruolo di primo piano nella denuncia dei crimini di guerra dell’esercito russo in Cecenia, accanto al grande dissidente sovietico Sergej Kovalev (1930-2021) (…). Fino alla dissoluzione di Memorial, nel dicembre del 2021, Orlov ha diretto la sezione “diritti umani” dell’ong, in stretta collaborazione con Memorial International, incentrata maggiormente sulla storia e la memoria delle repressioni di massa in Urss. Dalla sua eccezionale esperienza sul campo come difensore dei diritti umani, e in particolare nelle regioni periferiche dell’ex Urss, e dall’interesse che ha sempre nutrito per la storia, Orlov ha tratto un’analisi estremamente pertinente dell’evoluzione della Russia post sovietica da trent’anni a questa parte. Sottolinea anzitutto l’estrema fragilità e la brevità della “parentesi democratica”, che conosce una battuta d’arresto importante dall’ottobre 1993, con l’assalto armato condotto, su ordine del presidente Boris Eltsin, contro il Parlamento, seguìto poco dopo dalla guerra in Cecenia, nel corso della quale la nuova “Russia democratica” commette innumerevoli crimini di guerra e violazioni dei diritti umani.
La ricostruzione imperiale e la militarizzazione sono, per Oleg Orlov, i due pilastri su cui si basa lo stato russo post sovietico. Uno stato che nega qualsiasi spazio alla società civile e ai princìpi del diritto. Naturalmente Orlov riconosce che, durante gli anni Eltsin, nonostante la terribile crisi economica che colpisce la società russa, un certo numero di progressi democratici, e in particolare la pluralità di opinioni, conquisati in seguito a lunghe lotte dalla fine degli anni Ottanta, sussistono. Tuttavia, lo stato di diritto non riesce a costituirsi, né la società civile a strutturarsi, a capire e ad accettare questo “passato sovietico che non passa”, a interrogarsi anche sulla propria responsabilità nel disastro che il comunismo sovietico ha rappresentato. L’arrivo di Vladimir Putin al potere, nel contesto della seconda guerra di Cecenia, segna il trionfo definitivo dei “siloviki”, dei servizi di sicurezza russi e dei militari. La riconquista della dimensione imperiale va a braccetto con una sacralizzazione dello stato e con la negazione dei diritti dei cittadini, ridotti a essere soltanto delle “piccole viti” negli ingranaggi della grande macchina statale, un’immagine cara a Stalin. La ricostruzione dello stato-impero passa dalla guerra e dalla militarizzazione del regime. La stessa catena, insiste Oleg Orlov, lega l’invasione sovietica dell’Afghanistan, le due guerre in Cecenia, l’invasione russa della Georgia e l’intervento russo in Siria, terreno di sperimentazione delle tecniche di guerra totale e dei crimini contro le popolazioni civili messi in pratica dal febbraio 2022 in Ucraina.
Le Monde. Traduzione di Mauro Zanon
Il Foglio internazionale