un foglio internazionale
“L'impero russo crollerà”, dice Mikhail Shishkin
Per il grande scrittore russo, oppositore del regime di Putin, in Russia “è in corso una guerra civile da più di due secoli”
Il grande scrittore russo Mikhail Shishkin è ottimista per l’Ucraina, ma si mostra molto pessimista, invece, in merito al futuro democratico del suo paese. Vittima dello stalinismo, il nonno è stato deportato dal regime sovietico in un cantiere di costruzioni ferroviarie, in cui è morto. Sommergibilista, il padre è stato un eroe della grande guerra patriottica. Shishkin, vincitore dei più prestigiosi premi letterari russi, ha rifiutato nel 2013 di rappresentare il suo paese in occasione di un grande festival internazionale del libro, prima di denunciare con virulenza l’annessione della Crimea. La casa editrice Noir sur blanc pubblica “La Paix ou la Guerre”, raccolta di testi di rara potenza, inizialmente uscita in tedesco nel 2019, e nella quale lo scrittore di 62 anni, che vive in Svizzera, racconta le basi della guerra attuale. Perché tanta incomprensione tra l’occidente e la Russia da diversi secoli a questa parte, al punto da aver fantasticato da noi su una presunta “anima russa”? Perché questi appuntamenti mancati con la democrazia? In una lunga intervista all’Express, Mikhail Shishkin analizza la cultura della menzogna che regna secondo lui nel suo paese, spiega come Putin si è imposto come nuovo “zar” e teme un futuro molto cupo in Russia il giorno in cui quest’ultimo abbandonerà il Cremlino “in un modo o nell’altro”.
L’Express – Per capire la Russia, secondo lei, bisogna rendersi conto fino a che punto la menzogna sia predominante nella storia e nella società russe. “La ‘verità russa’ è una menzogna senza fine’”, scrive. E’ veramente così?
Mikhail Shishkin – La menzogna, nella storia russa, è l’unico modo per sopravvivere. Nei miei anni di gioventù, sotto il regime comunista, la menzogna era onnipresente. Lo stato ingannava i cittadini e i cittadini ingannavano lo stato. Il potere temeva il suo stesso popolo, fatto che lo portava a mentire. La popolazione partecipava a questa menzogna, perché essa stessa temeva il potere. I manifesti dicevano alla popolazione che l’Urss era “il bastione della pace” e, nello stesso tempo, i carri armati sovietici intervenivano in tutto il mondo. E’ per questo motivo che Solgenitsin, quando ha voluto distruggere il regime, ha pubblicato un celebre appello a “non vivere nella menzogna”. Oggi Putin, le persone attorno a lui, ma anche i cittadini normali, prolungano questo circolo vizioso delle menzogne. In occidente, le persone non capiscono come un leader politico possa mentire ai suoi stessi cittadini in maniera così sfacciata, assicurando per esempio nel 2014 che non ci fossero soldati russi in Crimea. Ma per i russi è assolutamente comprensibile. Dal loro punto di vista, ingannare il nemico non è un peccato, ma un’autentica virtù militare. E quando nel suo stesso paese Putin racconta delle contro-verità tutti sanno che mente, ma i suoi elettori accettano i suoi racconti. In un mondo democratico, le parole hanno la loro importanza. In Europa, la riforma protestante ha generato un cambiamento fondamentale: ciò che viene detto deve essere preso sul serio e considerato come vincolante. E’ la fiducia nella parola. Se un politico in occidente mente in maniera evidente, perderà le elezioni la volta successiva. Da voi, una menzogna può costare una carriera. E’ forse immaginabile che il presidente americano o il cancelliere tedesco inviino delle truppe per intervenire militarmente prima di negare la presenza dei loro soldati sul campo? Il loro elettorato non glielo perdonerebbe. Ma in Russia un dirigente deve mentire.
Secondo lei, fondamentalmente, non è cambiato nulla in materia di organizzazione politica da quando i territori russi sono stati sotto la dominazione dell’Orda d’oro dei mongoli, nel Tredicesimo secolo?
Osservate il sistema politico della Russia contemporanea. E’ esattamente lo stesso di mille anni fa, con un funzionamento piramidale! Sotto l’impero mongolo, il khan considerava il paese e i popoli asserviti come qualcosa di sua proprietà. La legge fondamentale era la legge del più forte, quella della violenza e del potere. In seguito, c’è stato lo zar che dominava un popolo di servi privi di qualsiasi diritto. Ma nella Russia attuale è ancora impossibile avere una proprietà privata garantita, nozione fondamentale nelle società occidentali. Potete possedere qualcosa solo se siete fedeli al potere. Si è visto ciò che accaduto agli oligarchi come Mikhail Khodorkovsky: un giorno avete tutto, il giorno dopo siete in prigione. Non c’è un sistema di diritto solido né di indipendenza della giustizia. Tutto appartiene al più forte. In questo sistema, la miglior strategia di sopravvivenza è quella di restare in silenzio. Puskin lo ha espresso in maniera geniale nell’ultima frase della sua tragedia “Boris Godunov”: “Il popolo resta in silenzio”. Purtroppo, i tentativi di distruggere questo sistema di funzionamento piramidale sono falliti. In Russia, abbiamo una guerra civile che dura da più di due secoli. Nel Diciottesimo secolo, sono arrivate in Russia delle persone provenienti dall’occidente, perché Pietro il Grande aveva aperto il suo regno. Non lo ha fatto per adattare il suo paese alla cultura occidentale e per “europeanizzarlo”, ma perché voleva modernizzare il suo esercito in previsione delle guerre contro l’occidente e fare uso delle tecnologie militari occidentali più moderne. Poiché un popolo di servi non è capace di innovare, Pietro il Grande ha fatto appello a dei lavoratori immigrati. E questi uomini hanno apportato con loro delle idee fino ad allora sconosciute in Russia: libertà, repubblica, parlamento, diritti umani, dignità personale. Una parte dei russi convertiti a queste idee s’è messa a sognare un ordine sociale democratico. Il primo tentativo di rivoluzione è stata la ribellione dei decabristi, nel 1825. Da allora, due nazioni si contendono lo stesso territorio in Russia. Sono russi, sia gli uni che gli altri, e parlano la stessa lingua, ma mentalmente sono in totale opposizione. La minoranza, quella degli “europei russi”, di cui faccio parte, è impregnata di cultura europea, di idee di libertà e della convinzione che la Russia appartenga alla civiltà umana generale. Per questa minoranza, tutta la storia russa non è altro che una cloaca sanguinosa dalla quale bisogna estirpare il paese per condurlo verso un ordine sociale liberale europeo. Ma l’altra parte, quella maggioritaria, ha conservato una concezione tradizionale del mondo che non è cambiata da secoli: secondo questa maggioranza, siamo un’isola santa circondata da un oceano di nemici, e solo lo zar che risiede al Cremlino è capace di salvarci e di preservare l’ordine in Russia con il pugno di ferro. Per due volte, in questa guerra civile, abbiamo creduto a una vittoria delle idee democratiche: nel febbraio del 2017, quando la rivoluzione pretendeva di trasformare la Russia nel paese più democratico del mondo, abolendo tutti i privilegi di classe, dando il diritto di voto alle donne, garantendo la libertà di pensiero e di religione. Poi, negli anni Novanta, dopo il crollo dell’impero sovietico. Ma abbiamo perso!
Perché?
Perché per la maggioranza dei russi, questi anni Novanta hanno rappresentato soltanto il caos e l’anarchia. La dittatura ha potuto essere ripristinata a causa della richiesta di ordine proveniente dalla popolazione. E per numerosi russi questo ordine può essere garantito soltanto da un regime autoritario. Eppure nel 1991, dopo il putsch fallito contro Gorbaciov, ero pieno di speranza. Ero convinto che, finalmente, saremmo diventati una repubblica libera e democratica. Ma non abbiamo avuto nessuna destalinizzazione, nessun “processo di Norimberga” contro i dignitari del Partito comunista. E’ come se nel 1945, per denazificare la Germania, fossero stati messi alla guida del paese dei responsabili del partito nazista o della Gestapo. E’ proprio quello che è accaduto nella Russia degli anni Novanta. Per costruire una società democratica abbiamo fatto appello a degli ex responsabili del Partito comunista, a dei funzionari del regime sovietico e a delle persone del Kgb. Ciò non poteva che portare al fallimento.
Come vede il futuro del regime di Putin?
Per me non c’è alcun dubbio sul fatto che, fino a quando Putin resterà al Cremlino, la guerra continuerà. Quando uscirà da lì – morto, sparito, non so che scenario potrà realizzarsi – i generali metteranno fine alla guerra. Sarà una vittoria per l’Ucraina e per tutti quelli che, come me, sostengono l’Ucraina contro il regime di Putin. Sono molto ottimista per l’Ucraina. L’aiuto occidentale permetterà al paese di ricostruire ciò che l’esercito russo ha distrutto. E gli ucraini alzeranno un muro alla loro frontiera con la Russia. In compenso, sono molto più pessimista su ciò che accadrà dietro questo muro.
“In Russia il bagno di sangue umano indebolisce il paese, ma rafforza la dittatura”. Lei non sembra credere per nulla a una transizione democratica nel dopo Putin.
Con il suo quadrato nero dipinto nel 1915, Kazimir Malevic, con tutta la preveggenza che possono avere gli artisti, ha rappresentato il futuro del suo paese. In seguito, c’è stata la guerra civile e il gulag. La Russia è effettivamente diventata un quadrato nero. Il futuro mi sembra altrettanto cupo oggi. Ci sarà una nuova lotta di potere. La Federazione russa, l’ultimo dei grandi imperi europei multietnici, continuerà a disintegrarsi. Ma dubito che la democrazia possa imporsi. Perché questo accada, dovrà esserci un sentimento nazionale di colpevolezza suscitato da questa guerra in Ucraina. Ma non penso che il nuovo zar che succederà a Putin andrà a inginocchiarsi a Kyiv, a Kharkiv o a Mariupol, come ha fatto il cancelliere Willy Brandt a Varsavia. I russi, forse, diranno: “Oh, non lo sapevamo, pensavamo di liberare i nostri fratelli ucraini dai nazisti della Nato!”. Se faranno così, non potrà che arrivare un nuovo Putin. (Traduzione di Mauro Zanon)
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