Un foglio internazionale
Perché il braccio di ferro tra Putin e Prigozhin sembra un film di gangster
La marcia della Wagner, anche se interrotta, conferma l’indebolimento del presidente russo e la natura mafiosa del suo regime. L'articolo del Figaro
Come finirà Evgeni Prigozhin? – si chiede Jean-François Colosimo, storico francese e specialista del mondo ortodosso, sulle colonne del Figaro. Come l’impostore Grigorij Otrepev, avatar del delfino Dmitrij, assassinato il 17 maggio 1606 dai boiardi per aver armato un gruppo di mercenari? Come l’usurpatore Emelian Pugacev, travestito da Pietro III, decapitato il 10 gennaio 1775 per aver marciato su Mosca alla guida di una truppa di ribelli? Il suo destino, sicuramente, non sarà pari a quello del pretendente al trono Boris Godunov, il ciambellano di Ivan il Terribile, incoronato il 1° settembre 1598 per ovviare all’assenza di un successore. O del putschista Lenin tornato dall’estero per approfittare del disastro militare sul fronte est e impadronirsi il 26 ottobre 1917 del Palazzo d’Inverno.
In venticinque anni di dominio assoluto, Vladimir Putin ci ha fatto dimenticare l’instabilità cronica della Russia, la fragilità delle sue istituzioni, ma anche delle sue incarnazioni politiche. Putin ha cancellato centinaia di falsi zar, zarevic, profeti, messia e altri salvatori provvidenziali che hanno tormentato i cinque secoli della sua espansione imperiale. Così come le migliaia di apparatcik che hanno frequentato il Politburo e il Gosplan (…).
Ecco che queste ombre hanno trovato la loro reincarnazione in un cuoco di corte divenuto un cane da guerra talmente arrabbiato che si è ribellato contro il suo padrone. L’ex membro del Kgb che regna sul Cremlino, esperto in eliminazioni, non si è sbagliato: è una battaglia senza pietà che il patron della Wagner ha voluto lanciare. Al termine sarà letale. Ma è ridotta, per ora, allo spettacolo di un braccio di ferro in mondovisione. La spiegazione più convincente di questo incredibile episodio è che Putin aveva abbandonato questo sgherro ingombrante e gli aveva intimato di rientrare nei ranghi. Che il bombardamento fallito dello stato maggiore contro un campo di Prighozin aveva lui come obiettivo. E che il servitore tradito si è recato a Mosca per richiamare ai propri doveri il suo fragile protettore. Ecco il perché, altra scena surrealista, della sua perorazione, una volta dimostrata la sua invincibilità, sul sangue russo che nessuno può spargere.
Che lezioni trarre da tutto ciò? Anzitutto la natura mafiosa del regime, di questa alleanza inedita tra spie e oligarchi votata al solo culto della potenza, si sta affermando. Traduzione cinematografica: dopo essersi imposto, con il mitra in mano, nei quartieri limitrofi e le lontane zone di traffico, il capo ribelle se la prende contro il padrino logorato, isolato nella sua torre d’avorio, disinformato dai suoi consiglieri, invecchiati, appesantiti e superati come lui. Un canovaccio da film di Scorsese o di Coppola? Purtroppo, la criminalizzazione della Russia dall’alto non ha più bisogno di prove. Crollando, il comunismo non ha generato bensì consacrato il gangsterismo che, fin dai suoi inizi, aveva tirato fuori dalle prigioni a beneficio del suo sistema di terrore. In seguito, la derealizzazione di tipo schizoide indotta dalla fabbrica della menzogna ufficiale continua e, naturalmente, si aggrava. Fino a capovolgersi. Sulla guerra, il tiranno continua a dire falsità e il sicario si mette a dire le cose vere. Il movimento di contestazione non emerge dalla frangia liberale ma dal blocco neototalitario. I soldati mobilitati sono meno diffidenti nei confronti dei miliziani sediziosi che degli ufficiali servili. Altra faccia della disgrazia russa: se Prigozhin seduce il cittadino lobotomizzato del 2023 tanto quanto Putin affascinava il cittadino desovietizzato male del 1999, significa che il capo di Wagner, urlante, bellicista e barbaro, rappresenta l’homo putinicus realizzato (…).
L’errore di comprensione comune, nel corso delle 72 ore che hanno reso vacante la sede del potere di Mosca, è stato quello di ridurle a un duello tra Prighozin e Putin. Dimenticando il terzo uomo che avrebbe e che ha certamente approfittato di questo crimine di lesa-maestà ritrasmesso in diretta sui social network. I candidati non mancano. Discendente da aristocratici bolscevichi, Sergej Naryskin ha ricoperto tutte le alte cariche prima di essere incaricato dell’intelligence esterna. E’ sostenitore di una riconciliazione con l’occidente (…). Per l’ala affarista, guidata da Igor Secin, patron di Rosneft, e vice primo ministro, la guerra è durata troppo e l’isolazionismo in stile Corea del Nord non può essere una soluzione (…). Al centro, si erge massiccio il clan slavofilo, che deplora l’invasione, è più nazionalista che imperialista e vede nell’eurasismo una semplice variabile di aggiustamento. E’ incarnato da Nikolaj Patrušev, l’eterno compagno di Vladimir Putin (…). Tutti possono dire grazie a Yevgeny Prigozhin. Il buffone di corte ha mostrato che il re è nudo. Impotente, in fuga, mediocre. Debole e indebolito. E che il suo allontanamento è una questione di tempo.
Il Foglio internazionale