Un foglio internazionale
“Niger, Mali, Burkina Faso… la nostra politica africana ci crolla addosso”
L’ex rappresentante della Francia presso le Nazioni Unite denuncia la miopia di Parigi sul continente. L'articolo del Point
Ve lo avevo detto” è una frase che oscilla tra una ridicola vanità e un’odiosa soddisfazione dinanzi alla disgrazia annunciata e puntualmente verificatasi. Non la utilizzo volentieri, ma i miei lettori possono ricordarsi di un articolo dove, diciotto mesi fa, invocavo una profonda revisione della politica francese nel Sahel. All’epoca, eravamo appena stati espulsi dal Mali. Il Burkina Faso è arrivato subito dopo ed ecco ora il turno del Niger. Ogni volta i golpisti puntano sui sentimenti anti francesi diffusi nella popolazione per presentare il loro colpo di stato come una liberazione dal colonizzatore e ogni volta viene agitata la bandiera russa davanti alla nostra ambasciata diventata una fortezza sotto assedio. Nessuno dovrebbe essere sorpreso da questa ondata che travolge i nostri interessi attraverso il Sahel. Non incriminiamo i russi, che approfittano soltanto della situazione. Prendiamocela con noi stessi, che non abbiamo capito che un’epoca si stava archiviando a nostre spese.
La causa principale della crisi è naturalmente questa Françafrique di cui ogni presidente annuncia la fine appena eletto all’Eliseo, non rendendosi conto che questa ripetizione rituale certifica invece che è sopravvissuta ai predecessori e continuerà a sopravvivere senza misure radicali che non sono mai state prese. No, non sono gli interessi mercantili a essere all’origine della crisi: tutto il continente africano rappresenta tra il 4 e il 5 per cento dei nostri scambi e dei nostri investimenti all’estero; il Sahel conta per meno di un decimo del totale di questi scambi e investimenti. Lo stesso uranio del Niger sarebbe facilmente sostituibile, nel mondo ce n’è in abbondanza e costa poco ma noi abbiamo accettato di pagarlo a un prezzo più elevato rispetto a quello di mercato. In realtà, il problema è politico: la Francia non ha saputo accettare che le sue ex colonie siano ormai indipendenti e trattarle di conseguenza (…). Dal canto nostro, è facile talvolta provare una certa nostalgia dagli echi coloniali. Ma i giovani africani non ne vogliono più sapere di questo atteggiamento.
Essi associano l’amministrazione corrotta e inefficace a questa Francia a cui le loro élite sono apertamente vicine. Il nostro paese è diventato il capro espiatorio di tutte le loro frustrazioni. Rifiutano persino la nostra lingua perché loro stessi non hanno più accesso all’istruzione che ne permette l’apprendimento. Ma la scintilla che ha dato fuoco alle polveri è l’intervento militare in Mali nel 2013. Non solo, nel corso del tempo, i liberatori – è così che furono accolti i francesi – sono diventati sempre più degli occupanti, ma, lungi dal ridurre la minaccia terroristica, l’operazione è stata anche accompagnata, anno dopo anno e nonostante i nostri successi sul campo, dall’estensione progressiva del raggio d’azione dei jihadisti (…). Uno dopo l’altro, i paesi della regione sono stati travolti dalla guerriglia. Il Sahel, una delle regioni più povere del mondo, dove la popolazione raddoppia ogni diciotto anni, è diventata progressivamente un campo di battaglia con il suo corteo di rifugiati e di atrocità senza prospettive di conclusione rapida dei combattimenti. Ci possiamo chiedere se la Francia ha vinto tutte le battaglie, ma perso la guerra (…). La nostra politica africana ci sta crollando addosso. Cambiamola completamente. Il presidente della Repubblica ne aveva capito la necessità, ma si è fermato a metà strada dinanzi alla resistenza delle routine, in particolare quelle militari. Il nostro stato maggiore è tiene molto alla nostra presenza in Africa, che ha permesso alle nostre forze armate di acquisire un’esperienza sul campo che non ha eguali.
Ricordo il senatore McCain che, tornando da una missione in Mali, esprimeva la sua ammirazione per l’azione delle nostre truppe, ma ammettiamo che si tratta dell’eredità di un’altra epoca. Riduciamo drasticamente i nostri effettivi sul campo. Chiudiamo le nostre basi che non hanno altra giustificazione se non l’intervento negli affari africani. Perché, tra l’altro, le abbiamo conservate per così tanto tempo? Il Regno Unito, il cui ex impero coloniale è ben più esteso del nostro, non ne ha sentito il bisogno. E non sembra avere rimpianti. Imitiamoli. Facciamoci discreti. Non spetta a noi decidere la forma di governo che conviene a un paese. Dobbiamo smetterla di considerare che i problemi della regione sono nostra responsabilità, e spingiamo le istituzioni internazionali a investirsi in una regione che hanno per molto tempo trascurato poiché era la nostra “riserva di caccia”. Queste “riserve di caccia” non devono più esistere. Facciamo una stima razionale dei nostri interessi concreti e atteniamoci alla loro difesa. Sono in realtà assai limitati.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale