Un Foglio internazionale
“Le ‘letture sensibili' falsificano la lingua e distruggono la letteratura”
Per Carl Bergeron, sul Figaro, è sbagliato che un autore sottoponga il proprio testo a un tribunale del pensiero prima della sua pubblicazione
Sul quotidiano canadese La Presse, una giornalista ha commentato di recente la polemica sulla nomina di un autore quebecchese, Kevin Lambert, al premio Goncourt. Commentare? Nella nostra epoca, per i giornalisti culturali e gli accademici politicamente corretti (o allineati), significa distribuire degli “elementi di linguaggio”, per rinquadrare la discussione all’interno dei limiti dell’ideologia. Si fa finta di dibattere, ma in realtà si riproducono i divieti, riconducendo il monopolio del pensiero buono e giusto sotto una patina ingannevole di “pluralismo”. Ricordiamo che il giovane scrittore si è fatto rimproverare da Nicolas Mathieu, già vincitore del premio nel 2018 (per il romanzo “Leurs enfants après eux”, Actes Sud, ndr), di aver qualificato come “reazionari” i critici della “lettura sensibile” (…). Ascoltiamo questo bel ritornello dalla bocca del principale interessato: “Chloé (la sminatrice editoriale di Kevin, perché tra compagni progressisti si è tutti amici intimi: Chloé risponde a Kevin come Kevin risponde a Chloé) si è assicurata che io non dicessi troppe sciocchezze, che non cadessi in certe trappole della rappresentazione delle persone nere da parte di autori/trici bianchi/e. Mi ha anche detto di ampliare questo personaggio, di approfondirlo, di renderlo più complesso. La lettura sensibile, contrariamente a quello che dicono i reazionari, non è una censura. Aumenta la libertà di scrittura e la ricchezza del testo”.
Ogni lunedì, nel Foglio c'è Un Foglio Internazionale, segnalazioni dalla stampa estera con punti di vista che nessun altro vi farà leggere. Un inserto a cura di Giulio Meotti
Per dirla con Orwell: la guerra è la pace, l’ignoranza è la forza, e il commissario politico è il miglior amico dello scrittore. È una cosa comune dai tempi della pièce Slav, l’opera teatrale di Robert Lepage sullo schiavismo, nel 2018: l’ideologia supererebbe il campo ristretto della sociologia e sarebbe depositaria della verità estetica. Un tempo adibiti alla ricezione (confidenziale) dell’opera, questi ricercatori a inizio carriera, fino a poco tempo fa ancora condannati ai margini, sono invitati oggi nell’atelier dell’artista per influenzare la creazione e autentificarla: “Invitato” (traduzione: convocato) da dei commissari politici dell’Université Concordia a “scambiare opinioni” (traduzione: a dare spiegazioni) sulla sua pièce, Lepage era uscito dal colloquio sbalordito, e apparentemente incantato, secondo le sue parole, dalla sofisticazione e dalla grande cultura di queste menti superiori – arrivando a sostenere che i loro “consigli” avevano contribuito a rendere la sua pièce “migliore”.
Non c’è nulla di sorprendente in questa cosa: l’obiettivo dell’ideologia è infatti quello di apparire sotto i tratti dell’obiettività, di sostituirsi alla realtà sotto forma di una copia più autentica dell’originale. In un regime ideocratico, è il nostro caso in occidente, da poco meno dieci anni a questa parte, chiunque voglia situare il suo discorso al di fuori della giurisdizione dell’ideologia (per esempio in nome del rispetto della verità o di una certa idea della letteratura e della lingua), si autocondanna alla non esistenza, ossia alla dissidenza: è “reale” (“visibile”, “legittimo”, “nel senso del Progresso”) solo ciò che è stato approvato dall’ideologia e dai suoi chierici. Alcuni hanno parlato di “post letteratura”, ma bisognerebbe prendere in considerazione più concretamente, ossia più politicamente, le conseguenze tardive della caduta del Muro di Berlino con una migrazione sempre più accentuata verso l’ovest delle patologie culturali un tempo vissute a est.
La polemica, ossia il confronto civile, non ha più diritto di esistere: l’opposizione genera nel potere negazione della realtà e riflesso di esclusione. Ciò che ha confermato per assurdo Didier Decoin, presidente dell’Académie Goncourt, che ha suonato la fine della ricreazione parlando di una “polemica stupida”, dichiarando allo stesso tempo, in spregio al principio di non-contraddizione, “che non c’era nessuna polemica”, non senza aver aggiunto, seguendo lo stesso principio di non-contraddizione, “che ci sono sempre state delle polemiche” nella storia del premio (state seguendo?). “Capisco che Kevin Lambert non abbia voluto consegnare un testo suscettibile di urtare le persone. Quando si scrive un libro, non si ha voglia di ferire i sentimenti”, ha commentato con toni melliflui il presidente, ansioso di reinserire la discussione dentro i binari e di riportare il gregge nell’ovile. Per il giovane autore impetuoso che, in “Querelle”, si ispirava a Jean Genet, che effetto fa di essere visto come un bravo ragazzo, che non vuole soprattutto urtare le sensibilità e ferire i sentimenti?