Un foglio internazionale
La lezione di Israele
Gli autori di “Start-up Nation” spiegano che dall’orrore del 7 ottobre è uscito un paese cambiato che ha molto da insegnare all’occidente
"Il 7 ottobre è stato come se la straordinaria potenza militare di Israele fosse scomparsa per dodici ore", scrivono sulla Free Press Saul Singer e Dan Senor, autori di “The Genius of Israel: The Surprising Resilience of a Divided Nation in a Turbulent World” e del best seller “Start-Up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle”. “Le istituzioni incaricate del dovere più fondamentale di qualsiasi stato – proteggere i propri cittadini – hanno fallito nel peggiore dei modi. Nella breccia sono entrati gli israeliani comuni. Israeliani come il generale in pensione Noam Tibon, 61 anni, che ha guidato verso sud armato solo di una pistola. Suo figlio Amir, giornalista del quotidiano Haaretz, era intrappolato in una stanza sicura con sua moglie e le sue due figlie nella loro casa nel kibbutz Nahal Oz, circondato da terroristi. Amir, che parla arabo, ha detto più tardi: ‘Ho capito la situazione e mi sono preparato a morire’. Sulla strada per salvare Amir, Noam e sua moglie Gali hanno salvato due ragazzi in fuga. Noam si è unito quindi ad alcuni commando che stavano combattendo in un altro kibbutz, ha portato in salvo due soldati feriti ed è tornato a sud a piedi. Noam è stato prelevato da un altro generale in pensione, Israel Ziv, 66 anni, che lo ha lasciato al kibbutz di Amir. Per un’ora, Noam si è impegnato in un combattimento porta a porta. Alla fine, dopo dieci ore nella stanza sicura, una delle figlie di Amir ha detto: ‘Il nonno è qui’.
Anche Yair Golan, 61 anni, un generale in pensione che era stato ignorato come capo di stato maggiore a causa delle sue opinioni di sinistra, ha preso la sua uniforme e una pistola e si è diretto a sud. Lungo la strada ha ricevuto un messaggio da sua sorella che gli indicava la posizione di tre giovani nascosti nei campi vicino al festival musicale dove centinaia di persone venivano massacrate; ha salvato da solo loro e molti altri.
Circolano storie di autisti arabi israeliani, come Ismail Alkrenawi, che insieme ai suoi parenti ha rischiato la vita per salvare altri israeliani sotto assedio nel Kibbutz Be’eri. ‘La nostra coscienza non ci permetteva di lasciarli lì sotto il fuoco’, ha detto Alkrenawi. Queste non sono che una manciata di storie simili di eroismo profondo ma quotidiano emerse finora da quelle ore infernali. Per coloro che hanno prestato attenzione a Israele nell’ultimo anno, forse questa solidarietà, questo altruismo e sacrificio arrivano come una sorpresa. Per dieci mesi il paese è stato dilaniato da quella che può essere descritta come una fredda guerra civile a causa del tentativo del governo di neutralizzare il potere della Corte suprema. Ma se Israele non riusciva a immaginare la depravazione di Hamas, non riusciva nemmeno a immaginare – o forse aveva perso di vista – la bontà del suo stesso popolo. Sulla scia di un trauma inimmaginabile, il popolo di Israele ha mostrato maggiore unità e resilienza di quanto chiunque, compreso lui stesso, avrebbe potuto prevedere.
In questa forza sociale nascosta non risiedono solo i semi della rinascita di Israele, ma un progetto per la rinascita dell’Occidente. Quali sono questi punti di forza? Il rabbino Jonathan Sacks, il defunto rabbino capo del Regno Unito, una volta raccontò una conversazione avuta con lo storico britannico Paul Johnson. Johnson, cattolico, scrisse ‘A History of the Jewish’ – una storia del popolo ebraico – affrontando l’argomento da outsider. Sacks ha chiesto a Johnson: cosa lo ha colpito di più del giudaismo mentre scriveva il suo libro? ‘Ci sono state, nel corso della storia, società che hanno enfatizzato l’individuo, come l’Occidente secolare di oggi’, ha detto Johnson a Sacks. ‘E ce ne sono state altre che hanno dato peso al collettivo’. L’ebraismo, ha continuato Johnson, è riuscito a dare ‘uguale peso ai diritti individuali e alla responsabilità collettiva’. Questo atto di equilibrio fu ‘una ragione per cui gli ebrei riuscirono a mantenere la loro coesione nonostante pressioni intollerabili’.
C’è una parola in ebraico per questa etica che non esiste in inglese: gibush. L’orizzonte verso cui lavorano gli israeliani quando crescono non è entrare nella migliore università ma prestare servizio nelle migliori unità dell’esercito. Mentre le pressioni ipercompetitive sulle élite americane creano una dinamica di uno contro tutti, in Israele è l’opposto: alcune delle unità più prestigiose sono le più difficili e pericolose ed essere accettati, essere un giocatore di squadra, è più importante delle abilità individuali. Il fatto che partecipare alla difesa del proprio paese sia una fase della vita per tutti – non qualcosa che gli altri fanno per noi – dà agli israeliani un senso di appartenenza, di essere un anello di una catena generazionale. I giovani israeliani sono consapevoli che i loro genitori e i loro nonni hanno servito per poter avere uno stato e sanno che ora è il loro turno. E’ stata questa sorgente di solidarietà, unita alla cultura del servizio, che è sbocciata nel mese trascorso dal 7 ottobre. L’Idf presumeva che non tutti i riservisti richiamati si sarebbero presentati in servizio: i riservisti hanno lavoro e famiglia, spesso con bambini piccoli, e molti spesso vivono o viaggiano all’estero. Ma in alcune unità si è presentato circa il 120 per cento dei riservisti, il che significa che molti di quelli che sono arrivati non erano stati nemmeno chiamati. Dopo gli attacchi, l’Idf è stato improvvisamente inondato di ebrei ultraortodossi – una comunità che generalmente non presta servizio nell’esercito – che volevano arruolarsi. I numeri stanno crescendo partendo da un livello basso, ma l’impennata è reale e potrebbe essere un presagio di un nuovo rapporto tra gli haredim e la più ampia società israeliana. Come ha detto il giornalista Haredi Yaki Adamker dopo aver annunciato in televisione che si sarebbe arruolato dopo il massacro del 7 ottobre: ‘Dopo tutto quello che abbiamo passato, mi sono chiesto: dove sono? Perché non posso servire? Da qualche parte c’era un buco nero in me che dovevo riempire’.
Israele non è un posto facile in cui vivere. Nei suoi 75 anni di esistenza ha sopportato sei guerre, una campagna di attentati suicidi palestinesi e molte altre importanti operazioni militari nel nord e nel sud. Eppure, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2019 l’aspettativa di vita in Israele era di 82,6 anni. Ciò ha classificato Israele al nono posto più alto al mondo, leggermente sopra Francia, Svezia, Canada e Nuova Zelanda, e un anno intero sopra Regno Unito, Germania, Finlandia, Belgio e Danimarca. In media, gli israeliani vivono quattro anni in più degli americani e un decennio in più dei loro ricchi vicini dei paesi del Golfo Persico, come l’Arabia Saudita.
Gli israeliani non sono soli, e questo probabilmente spiega una straordinaria anomalia: secondo l’ultimo World Happiness Report delle Nazioni Unite, Israele è il quarto paese più felice al mondo. Forse il più grande segno di fiducia nel futuro è il fatto che gli israeliani hanno di gran lunga più figli di qualsiasi altra ricca democrazia. E’ una legge ferrea della demografia che, a mano a mano che i paesi diventano economicamente più produttivi, diventano meno riproduttivi. Non ci sono eccezioni. Tutte le altre democrazie ricche sono ben al di sotto del tasso di sostituzione di fertilità pari a 2,1: la media Ocse è di 1,6 figli per donna. Ma Israele è stato intorno a 3,0 negli ultimi 25 anni. Avere tre figli è la norma nella Tel Aviv laica, averne quattro non è raro. Confrontiamo questi dati con il Giappone, il paese più vecchio del mondo, dove ogni anno vengono venduti più pannolini per adulti che pannolini per bambini. Gli israeliani non hanno solo famiglie più numerose, ma anche più vicine. Anche se le brevi distanze aiutano – puoi guidare per tutto Israele, da cima a fondo, in sette ore – non è l’unica ragione per cui tre generazioni di famiglie si riuniscono quasi ogni settimana durante lo Shabbat. Mentre il mondo è afflitto da un’epidemia di solitudine e da ‘morti per disperazione’ – ovvero morti per suicidio, alcol e abuso di droghe – Israele ha uno dei livelli più bassi di tali morti nell’Ocse.
Nell’arco di 24 ore, a partire dalla mattina del 7 ottobre, un team di 20 persone provenienti da diverse aziende tecnologiche ha creato un sistema utilizzando l’intelligenza artificiale e il riconoscimento facciale per identificare le persone scomparse, molte delle quali rapite, dai video pubblicati da Hamas sui social media. Sarebbe stato impossibile per l’esercito o il governo costruire un sistema del genere così rapidamente. ‘Il nostro personale era dieci volte sovraqualificato per quello che faceva. Se mi avessero chiesto se fosse possibile costruire una start-up così velocemente, avrei detto di no’, ci ha detto il venture capitalist israeliano Gigi Levy-Weiss. Immaginate se l’America entrasse in guerra. I fondatori delle start-up della Silicon Valley si offrirebbero in questo modo? Il giornalista di guerra Sebastian Junger scrive che ‘la società moderna ha perfezionato l’arte di far sì che le persone non si sentano necessarie’. L’eccezione è l’Israele moderno, dove gli israeliani si sentono necessari. Si assumono la responsabilità del loro destino. Sentono di avere una responsabilità personale nel costruire – e ora ricostruire – il loro paese. Anche se in questo momento Israele potrebbe sembrare l’ultimo posto che altri paesi dovrebbero emulare, guardate più da vicino. Nella forza sociale nascosta di Israele risiedono non solo i semi della sua rinascita, ma un possibile progetto per la rinascita dell’occidente”.
(Traduzione di Giulio Meotti)
Il Foglio internazionale