un foglio internazionale

“Un clima di insicurezza permanente sta logorando la società francese”. Parla l'esperto di sicurezza

Per Éric Delbecque ciò che lega l'attacco in una scuola di Arras, nel quale è morto un insegnante, e quelli di Crépol e della Tour Eiffel è la disinibizione della violenza

Dopo l’attacco terroristico di sabato 2 dicembre a Parigi, costato la vita a un giovane turista di nazionalità tedesca e filippina, l’esperto di sicurezza interna Éric Delbecque punta il dito contro l’insicurezza sistemica che sta consumando la società francese e propone delle risposte penali contro il jihadismo. Delbecque è l’autore di “L’insécurité permanente” (Cerf) e “Les Silencieux. Ne nous trompons pas, les salafistes menacent la République” (Plon). Alexandre Devecchio l’ha intervistato per Le Figaro (3/12).


Le Figaro – Armand Rajabour-Miyandoab è stato arrestato sabato sera a Parigi dopo aver ucciso una persona con un coltello e averne aggredite altre due con un martello. Siamo nello scenario di insicurezza permanente che descrive nel suo ultimo libro?

Éric Delbecque – Sì, è una delle manifestazioni di questa insicurezza permanente, anche se il terrorismo islamista non la riassume. Tuttavia, dobbiamo riconoscere collettivamente che questo scenario continua ad amplificarsi: lo subiamo ormai da diversi anni. I “territori perduti della Repubblica” (riferimento all’omonimo libro dello storico della Shoah Georges Bensoussan, ndr) lo simboleggiano da ormai vent’anni. E gli scontri avvenuti lo scorso giugno (in seguito alla morte di un giovane a Nanterre durante un controllo di polizia, ndr) ce lo hanno ricordato con grande brutalità.

 

Tre settimane dopo il dramma di Crépol (durante il quale ha perso la vita un sedicenne, Thomas Perotto, ndr), la Francia è dunque nuovamente vittima di un attacco. Anche se l’assassino di Thomas non ha alcun legame con il terrorismo jihadista, questi due casi si iscrivono secondo lei nel medesimo contesto di insicurezza sistemica? Siamo di fronte a una combinazione di violenze inedite? 

E’ indiscutibile, effettivamente, il fatto che ci troviamo di fronte a un clima di insicurezza permanente perché sistemico. Cosa si può dire? Che questo sistema si alimenta nel gioco delle radicalità, si radica nelle interazioni estremamente dinamiche, conflittuali, tra le varie forme di violenza ideologica che continuano ad aumentare nel nostro paese e una vasta regressione in termini di civiltà. Ciò che lega il dramma di Arras (l’assassinio del professore di lettere Dominique Bernard da parte di un ex allievo radicalizzato al grido di “Allah Akbar”, ndr), quello di Crépol e l’assassinio del turista ai piedi della Tour Eiffel, è la disinibizione totale di una violenza che funge da principio permanente di comportamento, che viene valorizzata ai propri occhi e a quelli degli altri, che si cerca di mostrare, e che la società, i suoi codici e le sue intuizioni non riescono più a canalizzare in maniera efficace. 

 

Il Centro d’analisi del terrorismo (Cat) ha precisato al Figaro che l’aggressore era in contatto con Abdoullakh Anzorov, l’assassino di Samuel Paty, e molti altri terroristi jihadisti. Progettava un attentato nel quartiere La Défense nel 2016, per il quale era stato condannato a cinque anni di prigione, quattro dei quali passati in detenzione. La risposta penale era appropriata per questo tipo di profilo? Come spiega il fatto che sia stato rimesso in libertà così rapidamente? 

Era effettivamente in contatto anche con Larossi Abballa, l’assassino della coppia di poliziotti uccisi a Magnanville, e con Adel Kermiche, uno dei due autori dell’uccisione di padre Hamel a Saint-Étienne-du-Rouvray. E’ troppo facile commentare una pena detentiva quando non si hanno a disposizione tutte le informazioni; in compenso, è evidente che sia necessaria una riflessione sul nostro approccio penale al fenomeno jihadista. E’ chiaro che il nostro paese sarà costretto a inasprire le sanzioni contro gli islamisti, anche prima di qualsiasi passaggio all’atto terroristico. La semplice partecipazione alla preparazione di un progetto, o una chiara apologia di jihadismo, dovrà esporre gli autori a pene dissuasive, o che, quantomeno, proteggano la società per numerosi anni. Inoltre, bisogna cambiare il discorso sulla deradicalizzazione con molta meno ingenuità. 

 

Al di là del lavoro delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, secondo lei, è necessario intraprendere un lavoro di rifondazione dello stato per bloccare quello che il presidente della Repubblica ha definito un processo di decivilizzazione e che alcuni osservatori considerano legato a uno scontro di civiltà? 

Sì, ma non è soltanto lo stato che deve essere rifondato: è la nostra società nella sua interezza. Ogni cittadino deve prendere coscienza di questa dinamica di decivilizzazione e contribuire, secondo le proprie possibilità, a fermarla, anche attraverso le scelte intellettuali, ideologiche e politiche. Per quanto riguarda le organizzazioni private, i media e le associazioni, spetta a loro meditare sulla propria responsabilità in merito alla situazione attuale.