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La pace, il pianeta, la differenza tra i sessi… Che cosa dobbiamo salvare?
Intervista al filosofo e storico Rémi Brague che ha diretto un’opera collettiva consacrata alla nozione di salvezza. L'articolo del Point
Il filosofo e storico Rémi Brague, membro dell’Institut de France e figura di spicco del dibattito intellettuale francese, ha diretto un’opera collettiva consacrata alla nozione di salvezza, “Sauver”, edita da Puf. In quest’opera, Brague invita a mantenere la lucidità dinanzi alle minacce che incombono sull’uomo e, più in generale, sulla civiltà. “Pericoli e saggezze”. Potrebbe essere questo il titolo del programma proposto l’anno scorso dall’Académie des sciences morales et politiques, istituto fondato nel 1832. Sotto la direzione di Brague, una ventina di menti illuminate hanno lavorato per trovare una risposta a questa domanda insondabile: che cosa dobbiamo salvare e da cosa può venire la nostra salvezza? La nostra civiltà, la pace, il pianeta, la differenza tra i sessi? Le loro riflessioni, recentemente pubblicate da Presses universitaires de France, costituiscono una somma a volte travolgente, altre volte tranquillizzante, di rassegnata lucidità. Parlando con il settimanale Le Point, l’autore del progetto spiega il il senso del suo approccio.
Le Point – Salvare qualcosa significa semplicemente conservarlo?
Rémi Brague – Se salvare significasse solo permettere la continuazione del “business as usual”, ne varrebbe davvero la pena? Per me significa portare ciò che salviamo al suo punto più autentico, il che implica sempre una conversione radicale. Inoltre, essere salvati, anche nel senso più banale del termine, ci porta spesso a riconsiderare la nostra vita e a mettere a posto alcune cose. E’ un’esperienza molto comune: sfuggire alla morte, ad esempio, ci aiuta a vedere cosa vale davvero la pena conservare, a distinguere ciò che è essenziale da ciò che è accessorio.
Il suo libro si concentra su ciò che vale la pena salvare. Cosa, invece, non merita di essere salvato?
Volevo stilare un inventario dei beni di cui godiamo, senza renderci sempre conto di quanto siamo fortunati. Ma i relatori avevano l’ordine di non lamentarsi di un catalogo di capolavori in pericolo. Per quanto riguarda ciò che non vale la pena salvare, direi che è solo ciò che si rifiuta di essere salvato, in particolare ciò che si rifiuta di effettuare la necessaria revisione.
La preoccupazione per la fragilità del mondo, confusa con un atteggiamento conservatore, sembra aver preso piede nella vita intellettuale francese. A cosa dobbiamo questa nuova consapevolezza?
Mi piace la sua caratterizzazione dell’atteggiamento conservatore, anche se non lo definirei necessariamente così. E’ vero che sempre più persone si rendono conto che ci sono cose con cui non si può giocare, dalla base biologica della nostra esistenza collettiva – la natura – e personale – il corpo – fino alle più alte conquiste della cultura, passando per ciò che le rende possibili e ne costituisce l’ambiente di nutrimento, cioè il linguaggio. Sono meno ottimista di lei e non direi che questa preoccupazione si è imposta. Direi piuttosto che è riuscita a conquistare un posto nel dibattito pubblico. Quanto alle cause di questa nuova consapevolezza, ne vedo due: da un lato, la realtà concreta e oggettiva delle minacce che si annidano intorno a noi e, soprattutto – e queste sono le più pericolose – dentro ognuno di noi; dall’altro, forse mi sto facendo delle illusioni, la demonetizzazione delle ideologie e, dopo la sbornia che ne consegue, il risorgere di una certa lucidità…
In Francia il conservatorismo non è, o non è più, una forza politica importante. Come spiega questa debolezza? Si tratta di una peculiarità nazionale?
La parola “conservatore” esiste dai tempi di Chateaubriand, che non era certo un nostalgico. Il fatto è che in Francia la parola non ha l’aura di rispettabilità che ha al di là della Manica, dove il partito conservatore è ben radicato e ha prodotto uomini di notevole intelligenza e determinazione, da Disraeli a Churchill. Nel programma che ho avuto il compito di organizzare per l’Académie des sciences morales et politiques, alla quale ho l’onore di appartenere, non ho voluto invitare politici a parlare. Volevo rimanere sul piano delle idee, con le quali, come filosofo, mi sento più a mio agio. Non è stata una scappatoia, perché per me sono le idee a dare all’azione, che in ultima analisi è l’unica efficace, la sua direzione e la sua forza motrice.
In mancanza di una forza politica potente, cosa ci può salvare?
La forza politica non è solo una questione di potere, cioè di mezzi che si possono utilizzare. Anche se la mancanza di potere materiale è, come tutti sanno, il peccato mortale di uno stato. La parola forza è prima di tutto una virtù, che è ciò che la lingua antica chiamava coraggio, in latino “fortitudo”. E’ la virtù che decide se usare gli strumenti del potere e acquisirli. La lucidità di cui ho parlato prima non è tanto una virtù della mente quanto del cuore: accettare di aprire gli occhi.
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