un foglio internazionale
L'offensiva di Israele arriva a Rafah, ma non si vede la fine della guerra
Lo storico Benny Morris fa il punto sulla campagna militare contro Hamas a gaza, giunta all'ottavo mese. Nonostante le sconfitte, l’organizzazione islamista è ancora in piedi nella sua ultima roccaforte a Rafah
“L’offensiva israeliana contro Hamas nella Striscia di Gaza, giunta al suo ottavo mese, a seguito della selvaggia invasione del sud di Israele da parte degli islamisti il 7 ottobre, sembra essere andata male sia militarmente che politicamente e non se ne vede la fine” scrive su Quillette lo storico Benny Morris. “Israele, un piccolo paese con una piccola popolazione ebraica e una piccola base militare-industriale, non è costruito per guerre lunghe. Dal 1948, le sue guerre sono state notevolmente brevi: una settimana nel 1956, sei giorni nel 1967, 18 giorni nel 1973. Anche la mini-guerra fallita con Hezbollah nel 2006 è durata solo un mese. Questa volta la guerra sembra infinita. È vero, all’inizio della campagna a Gaza, i capi dell’establishment della difesa israeliano hanno messo in guardia il governo e l’opinione pubblica a non aspettarsi una soluzione rapida e hanno avvertito che la guerra probabilmente avrebbe richiesto ‘molti mesi’, forse trascinandosi per un anno o più, prima che il suo obiettivo principale fosse raggiunto: la distruzione di Hamas come organizzazione militare e di governo. Tuttavia, mentre il 14 maggio Israele festeggiava i 76 anni di indipendenza, un’atmosfera di acuto sconforto ricopriva la nazione. Ovunque, sia il pubblico che il governo si sono confrontati con manifesti che mostravano i volti dei 100 ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas a Gaza. E la settimana scorsa si è verificata una serie di incidenti che hanno messo in luce sia i fallimenti dell’IDF sia i rischi politici – persino i pantani – che apparentemente si profilano all’orizzonte.
Cinque soldati sono stati uccisi nel quartiere Zeitun di Gaza City, un quartiere già apparentemente ripulito dai combattenti islamici due volte dal novembre 2023; e salve di razzi lanciati da Hamas hanno colpito per la prima volta dopo mesi le città israeliane relativamente distanti di Ashkelon e Beersheba. Insieme, questi incidenti hanno dimostrato che, nonostante le sconfitte che Hamas ha indubbiamente ricevuto, l’organizzazione islamista è ancora in piedi ed è in grado di proiettare potere e letalità dalla sua ultima grande roccaforte, la città di Rafah all’estremità meridionale della Striscia, sul confine israeliano. Funzionari americani, compreso Joe Biden, da settimane avvertono Israele di non invadere Rafah senza garantire un'adeguata protezione e aiuti umanitari.
Parlando davanti alla telecamera la scorsa settimana, Biden ha annunciato che Washington aveva ‘sospeso’ una spedizione di bombe a Israele e ha minacciato di imporre un più ampio embargo sulle armi, se Israele avesse proceduto con la sua tanto intenzione di conquistare la città. L’annuncio ha segnato un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione americana, sotto la pressione dell’ala progressista del Partito Democratico e degli studenti che seminano caos e odio anti-israeliano e antisemita nei campus universitari degli Stati Uniti (e in Europa).
L’Egitto, da parte sua, teme – o almeno finge di aver paura – che la conquista di Rafah da parte d’Israele si estenda al Sinai, portando centinaia di migliaia di palestinesi a riversarsi nel territorio egiziano. Alcuni osservatori hanno suggerito che non è la prospettiva di un problema di massa di rifugiati nel Sinai, ma il desiderio del presidente Abdel Fattah El-Sisi di placare la ‘strada’ egiziana pro-Hamas a guidare l’attuale atteggiamento del Cairo. Nel frattempo, i due rappresentanti regionali dell’Iran – Hezbollah in Libano e i ribelli Houthi nello Yemen – stanno portando avanti le loro mini-guerre di logoramento contro Israele. Ma gli israeliani sono molto più angosciati dal martellamento quotidiano, anche se con bassa frequenza, dei villaggi di confine e delle postazioni militari israeliane, che ha causato solo una manciata di vittime, ma ha spinto i 70mila residenti della zona ad abbandonare le case e trasferirsi in anguste camere d'albergo e case di parenti nel sud.
Molti israeliani ora considerano un errore strategico l’ordine di evacuazione impartito dal governo alla popolazione, compresi gli abitanti della città di Kiryat Shmona, nei giorni successivi ai primi attacchi di Hezbollah l’8 ottobre. Sostengono che se agli abitanti del confine fosse stato permesso o avessero ricevuto istruzioni di restare, Hezbollah non avrebbe mai osato prendere di mira quelle comunità. Allo stato attuale, questi 70mila sfollati si sono aggiunti ai 50mila abitanti dei kibbutz di confine attorno alla Striscia di Gaza presi di mira da Hamas il 7 ottobre, le cui case e infrastrutture sono state gravemente danneggiate sia dall’attacco che dalla successiva campagna militare per sradicare gli Hamasnik che occupavano i kibbutz. Questi due gruppi di sfollati rappresentano un grosso grattacapo per il governo e l’esercito israeliani e un costante promemoria dell’inefficienza e dell’impotenza del governo. Dato il perdurare dello stato di guerra lungo i confini settentrionali e meridionali di Israele, il governo non è ancora riuscito nemmeno ad avviare la ricostruzione che dovrà precedere il ritorno degli sfollati. La maggior parte degli osservatori ritiene che ci vorranno anni, mentre gli sfollati rimarranno nel limbo. Ma dopo sette mesi di campagna, il problema più urgente di Israele rimane la continua esistenza, anzi la resilienza, di Hamas a Gaza. Questa resilienza è in gran parte dovuta alla vasta rete di tunnel – lunga più di 700 chilometri – che l’organizzazione ha costruito sotto le città, gli ospedali, le scuole e i quartieri residenziali della Striscia negli ultimi due decenni. Centinaia – forse migliaia – di buchi all’interno dei complessi ospedalieri e dei condomini consentono l’ingresso o l’uscita dalla rete. I tunnel, costati miliardi di dollari, furono costruiti per fornire rifugio, punti di raccolta e aree di lancio per operazioni di guerriglia in superficie per i circa 30mila combattenti dell'organizzazione, in previsione di un attacco e dell'occupazione israeliane. Come hanno scoperto le truppe israeliane che sono lentamente penetrate nella rete negli ultimi mesi, i tunnel contengono anche recinti e gabbie costruite per ‘ospitare’ gli ostaggi. I tunnel sono 10, 20 e anche 50 metri sottoterra, rinforzati da muri di cemento armato e dispongono di generatori e sistemi di elettricità, acqua e servizi igienici. Sono in gran parte impermeabili agli attacchi aerei e di artiglieria. Hamas ha impedito ai civili di Gaza di entrare nella rete di tunnel e, allo stesso tempo, non ha costruito alcun rifugio antiaereo per la popolazione civile, un fatto che aiuta a spiegare le migliaia di vittime civili inflitte durante la controffensiva successiva al 7 ottobre. Ad aggravare il problema che la rete di tunnel pone ci sono gli ostaggi israeliani. Hamas è stato riluttante a scambiare gli ostaggi rimanenti con Hamasnik imprigionati nelle carceri israeliane, anche con un rapporto ostaggi-prigionieri di uno a trenta, perché servono come scudo umano tattico per i quadri di Hamas all'interno dei tunnel. Questo è uno dei motivi per cui Israele ha trovato così difficile liberare la rete di tunnel.
Oltre a questo scudo tattico, Hamas ha anche uno scudo strategico: la popolazione civile di Gaza, dietro, in mezzo e sotto la quale i combattenti di Hamas hanno operato e continuano a operare. La popolazione di Gaza, che comprende nonni, genitori, fratelli, figli e parenti più lontani dei combattenti di Hamas, ha sostenuto in maniera schiacciante l'assalto del 7 ottobre. Secondo tutti i sondaggi d’opinione, la maggior parte della popolazione continua a sostenere l’obiettivo di Hamas di distruggere Israele.
L’esercito si oppone a un’occupazione a tempo indeterminato in cui Israele sarà responsabile della sicurezza e degli affari civili nella Striscia. Sarebbe una guerra di logoramento senza fine, vittime israeliane e arabe su larga scala e caos amministrativo. Gli Stati Uniti, che si sono concentrati sul problema del ‘giorno dopo’, hanno proposto da tempo che la Striscia fosse consegnata ad un’Autorità Nazionale Palestinese ‘rinnovata’ basata sull’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, con, al suo centro, il partito Fatah, che attualmente governa gran parte della Cisgiordania. L’Anp sarebbe rafforzata dal sostegno politico, economico e forse militare da parte degli stati arabi sunniti ‘moderati’, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e forse l’Egitto. Questi paesi potrebbero essere disposti a fornire all’ANP truppe per aiutarla a controllare la Striscia e intimorire le restanti squadre di Hamas. Questa idea sembra coincidere con la visione dello Stato Maggiore israeliano per una Gaza post-Hamas. Ma ormai da mesi Netanyahu afferma che il controllo dell’ANP-OLP avrebbe semplicemente convertito ‘Hamastan’ in ‘Fatahstan’, intendendo con questo – in linea con il pensiero della maggior parte degli israeliani – che non c’è alcuna differenza, in fondo, tra Hamas e Fatah, poiché entrambi cercano la distruzione di Israele come obiettivo finale. Nel frattempo, tutti gli occhi – israeliani, americani e arabi – sono puntati su Rafah. Può darsi che la popolazione di Gaza non mangi bene e che vi sia una grave carenza di frutta e verdura fresca, ma la situazione è ben lontana dalla fame e dalle epidemie di massa che Hamas e i suoi sostenitori hanno descritto.
L’esercito ha subito 280 morti e un numero dieci volte superiore di feriti nella sua offensiva di terra a Gaza, oltre ai 350 soldati uccisi e agli oltre 800 civili assassinati da Hamas il 7 ottobre, e una battaglia reale per Rafah potrebbe costare molte più vittime. L’esercito di Israele, come gli eserciti della maggior parte delle democrazie occidentali, teme di incorrere in gravi perdite e gli ospedali e le cliniche israeliane sono ancora affollati di soldati mutilati e traumatizzati che si stanno riprendendo da questi ultimi sette mesi di combattimento. La prospettiva di una decisiva vittoria israeliana a Gaza potrebbe spingere Teheran e Hezbollah a intervenire per salvare Hamas, scatenando così una guerra su vasta scala. Nel frattempo, non si vede alcuna conclusione positiva in vista per le sofferenze dei circa cento ostaggi che languiscono nei tunnel di Hamas. In effetti, se l’offensiva di Rafah riprendesse slancio, molti di loro probabilmente morirebbero mentre la città veniva ridotta in macerie”.
Traduzione di Giulio Meotti