Un foglio internazionale
Com'è la seconda guerra fredda
Ipotesi e realtà. Ma sono pronti gli Stati Uniti di fronte alle minacce di Russia e Cina?
"Suppose They Gave a War and Nobody Came?”, era il titolo di un film scadente del 1970 che catturò lo Zeitgeist anti Vietnam. Ma se avessero avviato una nuova guerra fredda e tu non te lo potessi permettere? Mezzo secolo dopo, questa è la domanda che gli Stati Uniti devono porsi”. Così Niall Ferguson su Bloomberg. “Il dibattito sulla seconda guerra fredda si sta infiammando. Ho presieduto un affascinante simposio sulle ‘guerre fredde’ – al plurale – presso la Hoover Institution in California. Dopo una giornata di dibattito sono emerse tre diverse scuole di pensiero. Coloro che si schierano con me nel credere che siamo già in una seconda guerra fredda includono George Takach, l’autore di ‘Cold War 2.0’, per il quale la competizione tra Stati Uniti e Cina è principalmente tecnologica; Dmitri Alperovitch, co-fondatore della società di sicurezza informatica CrowdStrike e autore di ‘World on the Brink’, che condivide la mia opinione secondo cui ci stiamo avvicinando a una crisi di Taiwan pericolosa quanto la crisi missilistica cubana del 1962; e lo storico di origine sovietica Sergey Radchenko, il cui meticoloso lavoro di ricerca ‘To Run the World’ è stato appena pubblicato da Cambridge e sostiene che la leadership dell’Urss era motivata più da insicurezze psicologiche storicamente radicate che dall’ideologia marxista-leninista. Non ci vuole un grande passo per vedere insicurezze simili all’opera oggi nelle menti di Xi Jinping in Cina e di Vladimir Putin in Russia.
Ci sono due controargomentazioni distinte.
La prima – che chiamerò il punto di vista dell’Aspen Strategy Group/Università di Harvard – è che il rapporto tra Stati Uniti e Cina non è così negativo come il rapporto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Questa è la linea adottata da Joe Nye e dal suo collega della Harvard Kennedy School, Graham Allison, che hanno incontrato Xi e il ministro degli Esteri Wang Yi in una recente visita in Cina.
Poi c’è la scuola Yale University/Hoover Institution. Secondo Odd Arne Westad, professore di Storia alla prima, e Philip Zelikow, mio collega alla seconda, la situazione globale oggi somiglia di più al mondo alla vigilia dell’una o dell’altra guerra mondiale. In un eccellente nuovo articolo, Zelikow sostiene che è un’illusione confortante – anzi, un ‘pio desiderio’ – credere che siamo in una guerra fredda con la Cina. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un nuovo Asse – Cina, Russia, Iran e Corea del Nord – che per molti versi rappresenta una minaccia più grande dell’Asse Germania-Giappone-Italia della fine degli anni 30 e dell’inizio degli anni 40, o della combinazione dell’Unione Sovietica all’inizio della Guerra fredda con la Cina e gli altri stati controllati dai comunisti.
‘Il caso peggiore, in una grave crisi’, scrive Zelikow, ‘sarebbe quello in cui gli Stati Uniti e i loro alleati si impegnassero per la vittoria, animati dalla propria retorica e da piani militari doverosi ma sconsiderati, e poi venissero sconfitti. Sarebbe il momento Suez per gli Stati Uniti, o forse molto peggio’. I lettori abituali di questa rubrica sapranno che a volte condivido questa paura. Per me, una seconda guerra fredda è un buon risultato. Una versione americana della crisi di Suez del 1956 – la fallita occupazione del Canale di Suez da parte di Gran Bretagna, Francia e Israele – sarebbe peggiore, in quanto un’umiliazione del genere nei confronti, ad esempio, di Taiwan segnerebbe la fine del primato americano, proprio come Suez suonò la campana a morto per l’impero britannico. Perdere la terza guerra mondiale sarebbe ovviamente la cosa peggiore. Uno degli argomenti più interessanti che ho sentito è che potrebbero esserci state più di due guerre fredde. Ebbene, se esiste anche solo la possibilità di una guerra fredda “zero”, dovrebbe esserci anche una guerra fredda “diet”? Lasciare che siano altri a combattere è, dopo tutto, uno dei quattro pilastri della grande strategia del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. In pratica, ciò significa incanalare denaro e armi verso paesi chiave – Ucraina, Israele, Taiwan – e sperare che riescano a tenere a bada le nuove potenze dell’Asse senza la necessità degli ‘stivali americani sul terreno’. In altre parole, a differenza della prima guerra fredda e della guerra globale al terrorismo, questa volta gli Stati Uniti stanno cercando di evitare di mandare in battaglia i propri soldati. E questo ha senso. Se il peso del vostro debito è spaventosamente alto e destinato a continuare a crescere anche tagliando la spesa per la difesa in rapporto al pil, avete bisogno della diet cold war, proprio nello stesso modo in cui le persone in sovrappeso optano per la diet Coke.
Questo approccio ha molti precedenti nella storia europea, ad esempio nei secoli XVIII e XIX, quando la Gran Bretagna pagò sostanziali sussidi ai suoi alleati nelle guerre contro la Francia, incoraggiandoli a combattere. Il precedente imperiale britannico è molto rilevante per i politici statunitensi, se solo lo sapessero. Pagare altre persone per combattere fu il modo in cui fu costruito l’Impero britannico. I principali destinatari dei sussidi britannici furono Federico il Grande di Prussia e Caterina la Grande di Russia. Erano fantastici, ma non così grandi da rifiutare uno scellino inglese. Il culmine arrivò con le guerre rivoluzionarie francesi e napoleoniche, quando il Tesoro di Sua Maestà lanciò soldi a chiunque fosse disposto a combattere la Francia: Austria, Baden, Brunswick, Hannover, Assia-Cassel, Assia-Darmstadt, Marocco, Portogallo, Prussia, Russia, Sardegna, Svezia e Sicilia. Il conto totale, al momento della sconfitta di Napoleone a Waterloo? Circa cinquanta milioni di sterline, di cui tre quinti pagati negli ultimi quattro anni di guerra. Nel 2022 quella somma, al netto dell’inflazione e della crescita, equivale a circa 256 miliardi di sterline. Eppure la Gran Bretagna poteva raggiungere questo obiettivo solo con politiche fiscali e monetarie che aumentassero sostanzialmente il debito nazionale – e l’inflazione. Tra lo scoppio della Rivoluzione francese nel 1789 e Waterloo nel 1815, il debito nazionale aumentò dal 114 per cento del prodotto interno lordo al 123, raggiungendo infine il 173 per cento nel 1822. I prezzi al consumo aumentarono del 77 per cento durante gli anni della guerra. Vale anche la pena aggiungere che il pagamento dei sussidi non era un sostituto della presenza britannica sul territorio: i britannici comandati dal duca di Wellington a Waterloo. Qui ci sono lezioni per gli Stati Uniti, un paese che da tempo ha perso il controllo delle proprie finanze pubbliche, al punto da gestire deficit superiori al cinque per cento del pil anche quando l’economia è vicina alla piena occupazione. L’esempio perfetto è la completa incapacità dell’Amministrazione del presidente Joe Biden di convincere il governo di Israele a fare ciò che vuole, vale a dire smettere di uccidere i civili palestinesi coinvolti nel fuoco incrociato dei suoi sforzi per eliminare Hamas a Gaza. Secondo Gideon Rachman e molti altri commentatori, Israele non può resistere alle minacce americane di tagliare gli aiuti se invade la città di Rafah. Veramente? E’ vero che, dalla sua creazione, nel 1948, Israele è stato il maggiore beneficiario degli aiuti esteri statunitensi, per un importo di quasi 300 miliardi di dollari. Tuttavia, come percentuale del reddito nazionale lordo di Israele, gli aiuti statunitensi hanno raggiunto il picco del 22 per cento nel 1979. Oggi sono l’un per cento. Non è tanto il fatto che gli Stati Uniti si siano disamorati di Israele: la rapida crescita dell’economia israeliana ha ridotto drasticamente l’importanza relativa degli aiuti americani. E’ vero, quell’assistenza rappresenta ancora il 16 per cento del bilancio della difesa israeliana. E ci sono importanti benefici che derivano dalla natura prolungata del sostegno statunitense. Questo è un vantaggio significativo, ma chiaramente non abbastanza significativo da consentire a Biden di costringere Netanyahu a fermare la guerra a Gaza. Forse basterà a scongiurare una seconda guerra israeliana contro Hezbollah in Libano – chiaramente un’impresa molto più grande della guerra contro Hamas. Ma anche questo è tutt’altro che certo.
Il problema di essere un cattivo pagatore è altrettanto evidente nel caso dell’Ucraina. Per ragioni che gli storici futuri faranno fatica a comprendere, gli Stati Uniti hanno sospeso i loro aiuti all’Ucraina alla fine del 2023. Gli europei non hanno colmato il divario, con il risultato che la capacità militare dell’Ucraina è stata ridotta e le speranze di vittoria della Russia si sono ravvivate. Questo è stato un terribile fallimento della politica americana. La sospensione degli aiuti all’Ucraina ha senza dubbio incoraggiato Putin a credere che la vittoria possa essere ottenuta in un arco di tempo relativamente breve. Grazie a Samuel Charap e Sergey Radchenko, ora sappiamo che, quando la loro invasione stava andando male all’inizio del 2022, i russi erano pronti a negoziare un accordo di pace con l’Ucraina. Il compromesso avrebbe escluso l’adesione di Kiev alla Nato, ma le avrebbe fornito garanzie di sicurezza multilaterali per proteggere la sua neutralità e avrebbe aperto la strada all’adesione all’Ue. Un’altra teoria è che gli ucraini siano stati troppo frettolosi nel presumere che gli Stati Uniti si sarebbero impegnati a combattere la Russia se questa avesse invaso l’Ucraina in una guerra futura. Una cosa è già certa, tuttavia: ogni possibilità di una pace negoziata è estremamente piccola finché Putin crede di poter vincere questa guerra perché gli Stati Uniti non hanno potere di resistenza.
Infine una domanda: chi ingrassa con la guerra fredda? Il termine latino tertius gaudens è utile in questo contesto: il terzo trae vantaggio. Nella prima guerra fredda ce n’erano molti: paesi neutrali o non allineati che traevano profitto dalla rivalità tra superpotenze, anche se le popolazioni delle nazioni coinvolte nelle guerre per procura soffrivano. Come la Diet Coke, la Diet Cold War potrebbe lasciare un retrogusto amaro”.
(Traduzione di Giulio Meotti)
Il Foglio internazionale