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“I barbari vanno sconfitti”. L'ultima intervista al grande scrittore albanese Kadaré
Fuggito dall’Albania comunista all’inizio degli anni Novanta, si è stabilito a Parigi. Parlava dell’Europa come del “continente che ha dato più di tutti”, ma era preoccupato per il suo destino. “La letteratura nasce sotto costrizione. Quando si ha la libertà, non si ha più nulla da fare”
Nato il 28 gennaio 1936, lo scrittore albanese Ismaïl Kadaré è morto il 1° luglio a Tirana all’età di 88 anni. Kadaré ha raccontato il suo paese opponendosi alla dittatura comunista – “un inferno”, la definì – che lo costrinse a riscrivere un centinaio di pagine dei suoi romanzi. Più volte vicino al Nobel per la Letteratura, Kedaré, in un articolo sul Monde dopo gli attentati di Parigi del 2015, scrisse che l’Europa ha “non solo il diritto ma anche il dovere di proteggere sé stessa, per sé stessa e per tutti gli altri”. Parlava dell’Europa come del “continente che ha dato più di tutti”, ma era preoccupato per il suo destino. “Nonostante la sua aria da grande dama, l’Europa non è mai stata intoccabile”. Era fiero di essere europeo: “Non possiamo negare che in tremila anni l’Europa ha prodotto dall’80 al 90 per cento dei tesori spirituali”. Diceva che il futuro della sua Albania risiedeva nell’Europa dello spirito e della cultura, in ragione delle sue antiche radici europee e cristiane. Kadaré è riuscito a fuggire dall’Albania comunista all’inizio degli anni Novanta e si è stabilito nei pressi del Giardino del Lussemburgo a Parigi. Dal Café Rostand, mitico caffè con vista sul giardino pubblico inaugurato nel 1612 da Maria de’ Medici, Kadaré ha scritto “Le mattine al Café Rostand”, una raccolta di riflessioni, a metà tra autobiografia e romanzo, nella quale evoca Tirana e Mosca, l’Accademia di Francia e il Macbeth, il premio Nobel ma anche gli amici e i compagni che subirono, come lui, il bavaglio della dittatura in Albania, e le figure letterarie parigine. Pubblicati in francese e albanese da Fayard, sotto la supervisione di Claude Durand, agente di Solzhenitsyn, i suoi libri sono epopee di grande ispirazione. Autore del romanzo di successo “Il generale dell’armata morta”, Kadaré ha pubblicato anche il suo diario della guerra in Kosovo, in cui ha avuto un ruolo attivo sfidando i media e vari presidenti.
Revue des Deux Mondes – Lei è uno scrittore di narrativa universalmente apprezzato. Ma ha abbandonato questo nobile abito per quello di “intellettuale impegnato” durante la guerra in Kosovo, in particolare con la raccolta “Il nous a fallu ce deuil pour nous retrouver”. L’impegno è dunque talvolta necessario, anche per un artista?
Ismaïl Kadaré – Tutto dipende dal contesto. La maggior parte dei paesi occidentali non richiede un impegno particolare agli intellettuali. Questi paesi godono di una certa stabilità. Ma non è così per tutti gli altri, come il Kosovo. Il mio impegno? Mi creda, all’inizio è stato un peso. Ma allo stesso tempo sarebbe stato immorale per me non fare nulla di fronte agli orrori della guerra. Posso certamente capire che non è compito di uno scrittore schierarsi, ma poiché tra i rappresentanti del popolo albanese non c’era nessuno in grado di reagire, era mio dovere farlo. A malincuore.
Sente di essere stato seguito?
Ci sono stati degli effetti. Gli orrori che hanno avuto luogo in Kosovo non erano affatto una novità. Erano persino prevedibili. Ne ho scritto abbastanza. Ciò che era meno prevedibile, però, è che per la prima volta il mondo ha cominciato a guardare in faccia la realtà.
Tuttavia, da Parigi si aveva la sensazione che la guerra in Kosovo fosse incomprensibile...
Sì, lo so. Molti hanno detto che tutto sembrava complicato, lontano e così via. Ma soffermiamoci con calma e fermezza. Bisogna essere un medico di Stato per prendere in considerazione la sofferenza dei deportati, delle donne violentate e dei bambini fucilati? E viceversa, bisogna aver praticato la più alta filosofia per ammettere questi crimini e tacere? Se è così, allora, o si è dei ciarlatani o dei criminali, o entrambi. Spesso mi è stato detto: “Sì, ma...”. Non c’è nessun “ma”. Stuprare le donne, sparare ai bambini: questi sono e restano crimini. Senza nome, senza giustificazione. Non importa dove vengono commessi.
Ma crede che il perdono abbia senso?
Sì, ma solo se gli aggressori chiedono perdono. Non dobbiamo nemmeno dimenticare che il bene è sempre più forte. È solo che è meno spettacolare del male. Spesso si ha la sensazione che il male regni ovunque, ma non è mai così. La virulenza non è la verità.
Eppure si ha l’impressione che la barbarie sia ovunque...
I barbari possono sembrare i più forti, almeno inizialmente, ma sono anche oggettivamente i più deboli. Il fatto che non abbiano un codice morale è un “plus”, mentre averne uno può sembrare a volte uno “svantaggio”. La soluzione a questa incoerenza? Se avete dei barbari davanti a voi, non cercate di imporre loro le leggi della democrazia, siete destinati a perdere, perché i barbari impongono sempre le loro leggi barbare. Per quanto sia triste, non dobbiamo avere paura di combatterli, per quello che sono. Né più né meno.
Cosa dice ai giovani albanesi?
Non faccio la morale. Cerco di dire loro la verità. In generale, dico loro: vivete normalmente, senza preoccuparvi della logica omicida dei vostri nemici, perché fareste il loro gioco. Le vostre aspirazioni di pace coincidono con quelle per il futuro dell'Europa. O quantomeno voglio crederlo.
Crede nel potere della letteratura di fronte alle disgrazie che affliggono il pianeta?
Sì, soprattutto nei Balcani, dove il potere della letteratura è tradizionale, quasi antico. Purtroppo, anche questo potere ha avuto un ruolo nelle disgrazie che abbiamo vissuto, proprio a causa di tutti gli scrittori che si sono schierati per le cause politiche e che non hanno mai smesso di esaltare sogni primitivi di falsa grandezza.
Che ricordi ha dei suoi vent'anni?
A quell’età, ancora studente, avevo già pubblicato due libri e da allora ho capito che la mia vita sarebbe stata un tutt’uno con la letteratura. La letteratura mi ha aiutato a vivere più o meno liberamente in un regime crudele. La meraviglia della letteratura è che ti permette di fuggire da un brutto sogno e di sentirti salvato. La scrittura mi ha permesso di resistere. Di non essere anestetizzato. Di essere me stesso nonostante tutto.
Detto questo, anche lei è stato censurato...
Certo, ma la censura è qualcosa di superficiale, qualcosa che esula dal fenomeno della creazione. Non tocca l’essenza della creazione. E, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è stata la libertà a portarmi alla letteratura, ma la letteratura a permettermi di essere libero. Mi ha permesso di salvare il mio essere, anche solo scrivendo per due ore al giorno.
Pensa che oggi siamo più liberi di quando lei era giovane?
Una cosa è certa, dall’età di 20 anni. Sapevo che se il mio Paese non era libero, io invece lo ero. C’è anche una verità forse delicata da esprimere: la letteratura nasce sotto costrizione. Quando si ha la libertà, non si ha più nulla da fare. Tutte le grandi cose forse sono state fatte sotto il terrore e il pericolo.
Ha mai temuto per la sua vita quando ha preso posizione durante la guerra in Kosovo? Prima? Dopo?
No, non ci ho mai pensato. Si può pensare solo alla vita.
Traduzione di Mauro Zanon
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