un foglio internazionale
La vita in una bolla digitale. Parla David Le Breton
Più connessioni, meno conversazioni. E non ci sono quasi più sguardi e sorrisi. Smartphone e social, il trionfo della dimenticanza di sé. L'intervista all'ex professore di sociologia e antropologia all’Università di Strasburgo e autore del saggio “La fin de la conversation"
Più connessioni, meno conversazioni. Sono queste le conclusioni di David Le Breton, ex professore di sociologia e antropologia all’Università di Strasburgo e autore del saggio “La fin de la conversation" (Métailié), intervistato da Juliette Jacqmarcq nel numero del 14 luglio scorso del Point.
Le Point – In che modo stiamo vivendo la “fine della conversazione”?
David Le Breton – L’idea centrale è la trasformazione antropologica che ha avuto luogo in seguito alla diffusione degli smartphone tra il 2008 e il 2010. La nostra vita quotidiana è stata completamente sconvolta da questa tecnologia. Basta alzare lo sguardo per strada e vedere tutte queste persone costantemente impegnate con i loro smartphone, i loro messaggi, le loro chiamate, i loro social network… Non vedono più nulla intorno a loro, indifferenti all’ambiente che li circonda. Stiamo vivendo un autismo sociale in cui ognuno è nella propria bolla, siamo insieme ma soli, ognuno dietro il proprio schermo. Questo cambia completamente la fisionomia delle persone: non ci sono più, o quasi, sguardi o sorrisi.
Come gli smartphone stanno cambiando la nostra vita politica?
Con internet è arrivata la semplificazione della conoscenza, creando l’illusione che basti visitare un sito per capire tutto. Il filosofo Michel Serres credeva ingenuamente che la scuola potesse diventare obsoleta perché tutti i bambini hanno accesso alle conoscenze di tutto il mondo grazie a internet. Ma nei siti web, nei blog e nei social network l’informazione è eccessivamente semplificata, spesso decontestualizzata e de-storicizzata. Questa semplificazione, unita agli algoritmi delle piattaforme digitali, rafforza le convinzioni degli utenti fornendo loro contenuti che confermano le loro credenze. Un’altra conseguenza degna di nota è il declino della conoscenza generale. Nei primi anni di università, molti studenti faticano a leggere più di qualche pagina di un articolo, hanno difficoltà a scrivere o a cogliere le sfumature di un evento. Gli schermi riducono il dinamismo del pensiero. Gli schermi o i moduli online che spesso chiedono risposte binarie – sì o no – contribuiscono a formattare il pensiero, trascurando le sfumature che caratterizzano la nostra realtà. Oscurano la complessità e la diversità delle prospettive.
Gli schermi non ci permettono più di essere informati sugli eventi politici come una volta?
No. Un tempo la cultura politica era molto più importante: c’erano culture di classe forti, radicate nella politica, una cultura regionale, la conoscenza della storia del paese o degli eventi europei. Oggi il valore di questi ancoraggi sta scomparendo con la globalizzazione e la superficialità delle informazioni che passano attraverso i social.
La conversazione digitale può avere almeno il merito di rendere la conversazione più diretta e non filtrata…
Probabilmente. Per le persone che hanno difficoltà a spostarsi, ad esempio, gli smartphone rappresentano un mezzo di comunicazione migliore. Ma dobbiamo prendere in considerazione le conseguenze più ampie. Stiamo perdendo l’empatia, la capacità di identificarci con gli altri. C’è un sentimento di indifferenza nei confronti degli altri, perché non vediamo più i loro volti. Le intonazioni della voce non valgono le sottigliezze del viso. E non dimentichiamo che molti dei nostri contemporanei, soprattutto le generazioni più giovani, ne sono talmente coinvolti da rifiutare a volte qualsiasi legame sociale, come gli hikikomori giapponesi.
Perché il viso è importante nell’interazione umana?
Il volto è il centro di gravità di ogni conversazione. E’ il luogo elementare dell’etica. E’ attraverso il volto che veniamo riconosciuti e ci vengono assegnati un sesso, un genere e un’età. È l’incarnazione morale fondamentale della persona, un punto di riferimento per il riconoscimento e la reciprocità. Attraverso il volto esprimiamo e percepiamo la vulnerabilità degli altri, stabilendo un rapporto di fiducia e protezione. E siamo responsabili delle nostre azioni e parole. Senza un volto, le interazioni perdono una dimensione di responsabilità. Le molestie e la violenza si acuiscono quando gli aggressori rimangono anonimi e non possono essere riconosciuti. L’assenza di un volto significa mancanza di responsabilità, dissoluzione di ogni responsabilità. Questo porta a una democratizzazione del male. Le piattaforme digitali incoraggiano le forme di espressione polemica perché attirano gli utenti di internet e generano un tempo di presenza sullo schermo, a loro grande vantaggio. In compenso, il volto in una conversazione ci riporta a una presenza reciproca, fugace ma essenziale. Il volto non è solo un punto focale della comunicazione, ma anche un pilastro della nostra interazione sociale, della nostra etica personale e della nostra capacità di comprendere e rispettare gli altri. Il vostro vicino può votare Rassemblement national o essere antisemita, ma quando gli parlate, parlate con un volto senza distogliere lo sguardo dall’altra persona, e diventa possibile ascoltarsi e quindi discutere.
Il “politicamente corretto” esisteva prima degli smartphone?
Ricordo quando ero studente: alcuni dei miei amici erano maoisti, trotzkisti… Potevo chiacchierare con loro in mensa davanti a un panino, anche se non eravamo d’accordo. A quei tempi, nelle università c’erano dibattiti ovunque, su mille argomenti, ma ci ascoltavamo a vicenda. Oggi questi dibattiti sono difficili. Dominano le opinioni nette e spesso impediscono di ricordare quella che Max Weber chiamava l’infinita complessità del mondo.
Come possiamo riscoprire l’intimità dell’interazione umana? Dovremmo gettare i nostri cellulari nel cestino?
Non avrebbe senso eliminare il telefono, perché è diventato una parte indispensabile della nostra vita quotidiana, sia per esigenze personali che professionali. La digitalizzazione ha invaso ogni aspetto della nostra vita, rendendola indispensabile. Naturalmente, ci sono momenti di resistenza all’onnipresenza della tecnologia digitale. Gli escursionisti, ad esempio, rappresentano una forma di contrapposizione alla digitalizzazione. Rallentando, prendendosi il tempo per osservare gli animali e i paesaggi, per riscoprire la conversazione, per ascoltarsi, per ricreare l’intimità e ripristinare i legami danneggiati da questa mancanza di attenzione agli altri che oggi governa le nostre vite, si sentono di nuovo vivi nel cuore pulsante del mondo. Questi escursionisti sono pionieri che, per un momento, abbandonano la digitalizzazione e scelgono di connettersi con il mondo reale. L’iper-realtà dei telefoni e dei social produce una forma di amnesia, un regno del divertimento che lascia pochi ricordi duraturi. Spesso le persone mi dicono: “Ieri ho passato tre ore al cellulare e non ne è rimasto nulla”. E’ un trionfo della dimenticanza di sé. Sconnettendoci, ci sottraiamo a questa colonizzazione della mente e riscopriamo relazioni umane improntate alla presenza reciproca, all’attenzione e alla reciprocità.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale