un foglio internazionale
Lezioni dall'America latina
E’ facile nazionalizzare, chiudere l’economia, sospendere le libertà ma è difficile poi ristabilire le regole di mercato e lo stato di diritto, spiega Baverez
Con l’eccezione del Messico – scrive Nicolas Baverez sul Figaro – l’America latina, a differenza dell’Asia, ancora una volta non riesce a far decollare la propria economia e ad abituarsi alla libertà . E ciò è dovuto non tanto all’accumulo di choc esterni – dal crack del 2008 alla guerra in Ucraina e al Covid – quanto alla maledizione dell’autoritarismo e del populismo, che minacciano di far precipitare il continente nel caos. Il Venezuela è l’emblema delle patologie sudamericane. Pur avendo le maggiori riserve di petrolio al mondo (300 miliardi di barili) ed essendo ricco di gas, oro, bauxite, ferro e nichel, il Pil del paese si è ridotto dell’80 per cento tra il 2013 e il 2022, fino a raggiungere solo il 10 per cento di quello francese, rispetto al 72 per cento del 1980. L’inflazione ha raggiunto il 360 per cento nel 2023. Il default sul debito estero ha distrutto il valore del bolivar. Il 90 per cento della popolazione vive oggi in condizioni di estrema povertà, soffre per la carestia, la mancanza di beni di prima necessità e il collasso del sistema sanitario, che sta portando a una proliferazione di epidemie. Il paese è stato abbandonato alla morsa dell’anomia, della corruzione e della violenza estrema, con le gang che controllano più della metà del territorio. Di conseguenza, 7 milioni di venezuelani su una popolazione di 29,7 milioni hanno scelto l’esilio – il 58 per cento dei quali giovani e qualificati – destabilizzando tutti i paesi del continente.
La rovina del Venezuela deriva interamente della rivoluzione bolivariana lanciata da Hugo Chavez. Essa ha attraversato tre fasi: la collettivizzazione dei mezzi di produzione, il controllo dei prezzi e dei cambi per finanziare gli aiuti sociali e sostenere i paesi ostili agli Stati Uniti; l’instaurazione di una dittatura implacabile da parte di Nicolas Maduro; la criminalizzazione dello stato e la balcanizzazione del paese. Dal 2023 in poi, Nicolas Maduro ha cercato di nascondere il crollo del regime rivendicando la sovranità sulla regione dell’Essequibo, ricca di petrolio, che rappresenta due terzi del territorio della vicina Guyana, e minacciando di invaderla. Una boccata d’ossigeno è stata data dalla parziale revoca delle sanzioni statunitensi in seguito alla guerra in Ucraina, che ha permesso a Chevron di rilanciare la produzione di petrolio, che era stata completamente interrotta dalla predazione della compagnia petrolifera nazionale Pdvsa, portandola a circa 800.000 barili al giorno, rispetto ai 3 milioni del 2013. Il regime ha immediatamente confiscato tutti i proventi, soprattutto per comprare i voti per le elezioni presidenziali del 28 luglio. Le elezioni sono segnate dalla feroce repressione dell’opposizione, la cui leader, Maria Machado, ha visto la sua candidatura bandita a gennaio dall’Alta Corte di Giustizia. Anche a Cuba il comunismo ha distrutto lo stato, l’economia e la società. L’agricoltura non produce più nulla e l’isola deve importare tutto il suo fabbisogno alimentare. L’industria di vecchio stampo è scomparsa. Il turismo è in declino. Il debito estero supera il 110 per cento del Pil. L’unica fonte di valuta è la fornitura di servizi di sicurezza e di personale sanitario a governi stranieri. La ricchezza pro capite è limitata a 2.400 dollari l’anno e la popolazione è condannata a morire di fame, a non avere assistenza sanitaria e a subire tagli all’acqua e all’elettricità. Il regime si è ridotto a fare appello al programma alimentare delle Nazioni Unite per ottenere il latte necessario a rimediare alla malnutrizione infantile. La società è afflitta dalla criminalità e dalla droga. I cubani insorgono regolarmente, ma invano, per protestare contro la mancanza di cibo, lavoro e denaro. La loro unica speranza è la fuga, e 425.000 degli 11,2 milioni di cubani hanno rischiato la vita per lasciare il paese tra il 2021 e il 2023. L’Argentina, da parte sua, dimostra quanto sia difficile e costoso uscire dal populismo. Esso è stato incarnato dal giustizialismo che, da Juan Peron ai Kirchner, ha combinato il governo autoritario, il disprezzo per lo stato di diritto, l’attuazione di una terza via tra capitalismo e socialismo, e la centralizzazione e la redistribuzione della ricchezza. Dal 1950, l’Argentina è scesa dal 9° al 26° posto tra le economie mondiali e dal 12° al 70° posto in termini di ricchezza pro capite. Il paese si è venezualizzato, facendo scivolare il 40 per cento della popolazione verso la povertà. Javier Milei è stato eletto per avviare una terapia d’urto che è l’unico modo per salvare il paese. Il piano di riforme approvato nel giugno 2024 prevede lo smantellamento del corporativismo statale, massicce privatizzazioni, un mercato del lavoro flessibile e incentivi fiscali e doganali per gli investimenti stranieri. Allo stesso tempo, la spesa pubblica è stata tagliata del 35 per cento, 50mila dipendenti pubblici sono stati licenziati e l’inquadramento degli affitti è stato smantellato. I primi risultati positivi stanno emergendo: il bilancio è tornato in pareggio per la prima volta in sedici anni, l’inflazione è scesa dal 25 per cento al 5 al mese e si prospetta una ripresa dell’attività del 5 per cento entro il 2025. Ma il prezzo della ripresa è esorbitante in termini di produzione, disoccupazione e povertà. Max Weber ci ricordava che “la rivoluzione non è una carrozza da cui si può scendere a piacimento”. L’America Latina, come l’Ungheria di Viktor Orbán, dimostra che è facile e veloce nazionalizzare e chiudere l’economia, corrompere lo stato e sospendere le libertà civili. Ma ci vuole molto tempo ed è molto difficile rimettere in piedi un’economia di mercato, con uno stato di diritto legittimo ed efficace e un potere pubblico guidato dal bene comune. Queste lezioni sono state confermate dall’ascesa dei regimi autoritari e totalitari in Europa negli anni Trenta. In un momento in cui sono tentati dal cedere alle passioni estremiste e al revival dei miti rivoluzionari, i francesi e gli europei farebbero bene a trarre i dovuti insegnamenti dalle derive ideologiche che hanno rovinato l’America Latina. (Traduzione di Mauro Zanon)
Firma di lungo corso del Figaro, allievo di Raymond Aron e attento osservatore delle dinamiche mondiali, Nicolas Baverez è autore di diversi saggi di rilievo. Con il suo ultimo libro, “Démocraties contre empires autoritaires: la liberté est un combat” (Éditions de l’Observatoire), invita l’occidente a riprendere coscienza della sua eredità e della sua unità per sventare le minacce rappresentate da imperi autoritari come la Russia e la Cina.
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