Un Foglio internazionale
La sinistra radicale dal Vietnam a Hamas, in nome dell'odio contro l'occidente
Michael Walzer contro gli attivisti di oggi che sono passati dalla difesa dei vietcong ai terroristi islamici e fanno il tifo per il declino dell’impero americano. Il trionfo dell’impegno ideologico sull’impegno politico
"C’è qualcosa che non va nella sinistra di oggi, o quantomeno in ampi settori di essa: ammetto che le eccezioni possono confermare la regola” scrive Michael Walzer su Quillette e Le Point. “Per caratterizzare il problema in maniera astratta, potremmo dire che ciò dipende dal trionfo del progetto ideologico e dei suoi slogan sugli interessi delle persone in carne e ossa. I vecchi goscisti ricorderanno la distinzione di Lenin tra “coscienza rivoluzionaria” e “coscienza sindacale”, ossia tra i militanti che cercano di creare una società comunista a tutti i costi e i lavoratori che vogliono salari più alti e condizioni di lavoro decenti. Potremmo anche tornare a una distinzione molto più antica, ma simile, offerta dal racconto biblico dell’uscita dall’Egitto: l’opposizione tra i futuri preti che sperano di stabilire una “nazione santa” e gli israeliti comuni che sognano latte e miele. Qui voglio invertire i valori attribuiti dagli autori biblici e da Lenin a questi due gruppi. Perché la sinistra sbaglia quando dimentica il latte, il miele, i salari più alti e la gente comune. Al momento, questo problema è più evidente tra gli attivisti di sinistra che difendono Hamas in nome della “resistenza”, dell’anticolonialismo e della liberazione (o che credono che i massacri siano mezzi di lotta necessari per queste cause).
Una posizione che adottano senza nessun pensiero per gli israeliani assassinati il 7 ottobre o senza alcun vero interesse per la popolazione di Gaza. So che molti degli studenti che hanno manifestato nei campus americani erano sinceramente affranti alla vista dei rifugiati palestinesi affamati, delle case distrutte e del numero sempre più alto di morti e feriti. Solo che queste preoccupazioni non si riflettono negli slogan cantati o nelle politiche promosse da queste parole d’ordine. Questo movimento si organizza proprio nel momento in cui il governo iraniano, principale sostenitore di Hamas, è impegnato nella più brutale repressione delle donne e delle ragazze iraniane, che non chiedono altro che un minimo di libertà. È questo il modello di una Palestina futura che i nostri manifestanti non osano guardare in faccia. In realtà, non pensano ai palestinesi che vivono da anni sotto il giogo di Hamas, o alle donne che saranno ancora ancor più soggette alla disciplina islamista se questo regime dovesse prendere il posto di uno stato – e ancor meno agli ebrei a cui è stata promessa la morte o l’esilio se Hamas dovesse raggiungere il suo obiettivo dichiarato, cioè l’annientamento di Israele. Persino l’attuale sofferenza degli abitanti di Gaza è poco più che un emblema della crudeltà israeliana nella maggior parte dei discorsi della sinistra. Come se i palestinesi fossero stati arruolati per uno scopo politico: l’eliminazione dello stato ebraico.
Gli attivisti di sinistra non parlano mai della strategia militare di Hamas, che consiste nell’installare i suoi combattenti e le sue armi nel cuore della popolazione civile. E non parlano della vasta rete di tunnel che Hamas ha costruito sotto Gaza, che permette ai suoi combattenti di rifugiarsi durante i bombardamenti di Tsahal, a differenza dei civili cui è vietato entrare. La sinistra non si preoccupa nemmeno del benessere dei palestinesi dopo la guerra o, più concretamente, di come potrebbe essere allestito un regime di ricostruzione a Gaza. Poco dopo il 7 ottobre, quando la controffensiva israeliana era appena iniziata, i nostri sostenitori di Hamas hanno deciso di portare la guerra in casa. Forse secondo la logica che tutto si decide qui, negli Stati Uniti, la grande potenza imperiale. Con il campus universitario come campo di battaglia, le manifestazioni hanno presto contrapposto gli studenti alla polizia – in una variante ironica della lotta di classe, con gli studenti a rappresentare la borghesia e la polizia la classe operaia. All’ordine del giorno c’erano la libertà di espressione (per i manifestanti, non necessariamente per tutti), il disinvestimento finanziario dalle aziende che fanno affari in Israele e la fine di ogni cooperazione accademica con le università israeliane.
L’obiettivo? Che Israele diventi uno stato paria, isolato e solo. All’interno della sinistra americana, una problematica importante è l’impegno dello stato a favore di Israele e la sua continua fornitura di armi. Fin dall’inizio, i goscisti hanno chiesto che gli Stati Uniti, visti come gli orchestratori di Israele imponessero un cessate il fuoco, e che questo cessate il fuoco prendesse la forma di un arresto immediato degli aiuti militari americani. Che questa sarebbe stata una vittoria decisiva per Hamas è stato raramente ammesso in questi termini, ma questa era senza dubbio l’intenzione degli organizzatori di questa campagna. Forse immaginavano una doppia vittoria: la fine del progetto sionista e l’accelerazione del declino dell’impero americano. E qui in patria abbiamo un’altra guerra, diretta non contro il sostegno americano a Israele, ma contro i sostenitori americani di Israele – sionisti o presunti ebrei sionisti. Una guerra che assume principalmente la forma di persecuzione e ostracismo di bassa lega piuttosto che (per il momento) di violenza organizzata, ma che si fonda sulla lunga storia dell’antisemitismo di sinistra e in cui la sinistra pro Hamas sta investendo molte energie (…). Il problema è che un intenso impegno ideologico spesso porta a una politica di odio mirato contro i nemici della causa. Sono abbastanza vecchio da ricordare la propaganda maoista e la sua campagna contro i “segugi dell’imperialismo”. Questo trionfo dell’impegno ideologico sull’impegno politico per la gente comune ha dei precedenti, e vorrei analizzare più da vicino un caso che mi ha coinvolto personalmente.
Ma prima, una domanda: non è strano descrivere questo trionfo “di sinistra”? L’obiettivo della sinistra, e l’onore di molti goscisti, non è sempre stato quello di lottare per il benessere di uomini e donne che soffrono, di costruire un movimento di massa che abbracci tutti gli individui che desiderano unirsi a esso? A volte sì, ma non sempre. Il radicalismo ideologico e il pensiero magico rivoluzionario hanno avuto una straordinaria presa su generazioni di persone di sinistra. Quando non sono al potere, le persone di sinistra tendono a credere che i loro omologhi al potere siano ideologicamente fedeli. Che vivano seguendo le loro dottrine ufficiali. Se l’Unione Sovietica si presentava come uno “stato operaio”, se le fabbriche erano nazionalizzate e le aziende agricole collettivizzate, allora il resto non aveva alcuna importanza. Gli ucraini affamati, i dissidenti mandati nei campi di lavoro in Siberia, gli scrittori e gli artisti ebrei assassinati, i vecchi rivoluzionari “processati” con accuse inventate prima di essere fucilati non erano importanti. Ed è impossibile che tali crimini abbiano avuto luogo. Una persona di sinistra che critica la brutalità del regime è un nemico dei lavoratori – “socialfascisti”, come venivano chiamati i socialdemocratici tedeschi negli anni Trenta, un primo esempio di odio mirato. Gli Hamasnik di oggi sono discendenti di questi difensori di sinistra dello stalinismo. Ma hanno anche antenati americani più recenti.
Negli ultimi mesi, i manifestanti dei campus fanno spesso riferimento al movimento contro la guerra della fine degli anni Sessanta, ed è effettivamente un esempio rilevante. Ma in realtà all’epoca esistevano due diversi movimenti contro la guerra, o due gruppi di attivisti con motivazioni specifiche. A volte questi gruppi si mescolavano e lavoravano insieme, ma uno aveva una motivazione ideologica, mentre l’altro, se così si può dire, era orientato verso le persone. Uno si concentrava sull’imperialismo americano, l’altro sulle immagini dei villaggi in fiamme in Vietnam. Uno desiderava una vittoria comunista, l’altro, pur continuando a opporsi alla guerra americana, la temeva. Nel 1967 ero co-presidente del Comitato di quartiere di Cambridge sul Vietnam (Cncv) (…). Mi sono scontrato con i rappresentanti della sinistra settaria, la cui ambizione era la rivoluzione (…). Al Cncv c’erano persone come me, attivisti senza ideologia e con in mente solo il presente. Ma c’erano anche molti altri che credevano di essere impegnati in una lotta storica e globale contro l’imperialismo americano. E’ qui che troviamo gli antenati più vicini agli odierni attivisti pro Hamas. Il Cncv alla fine raccolse abbastanza firme (e avvocati volontari) da costringere il Consiglio comunale di Cambridge ad autorizzare un referendum sulla guerra nel novembre 1967. Circa il 40 per cento dei residenti votò contro, il che fu una specie di vittoria. Solo che avevamo perso tutti i quartieri popolari, con una maggioranza solo ad Harvard Square e dintorni, un risultato ben lontano da quello che i nostri attivisti avevano sperato. In realtà, è proprio quello che avremmo dovuto aspettarci quando abbiamo mandato gli studenti, la maggior parte dei quali era esente dal servizio di leva, a bussare alle porte delle persone i cui figli erano nell’esercito, alcuni dei quali in Vietnam. Non avevamo pensato a come rivolgerci agli uomini e alle donne che volevamo convincere. Ci eravamo organizzati senza il minimo rispetto per la comunità. E così abbiamo probabilmente contribuito alla deriva a destra della classe operaia nei decenni successivi (…). Resta il fatto che la nostra politica era una linea sottile: condannare la guerra, pur essendo consapevoli della repressione che sarebbe arrivata se la guerra fosse stata persa, e poi condannare la repressione. Credo che abbiamo fatto meglio di tutti quegli esponenti della sinistra che si sono precipitati ad Hanoi per celebrare la vittoria comunista, senza pensare alla popolazione del sud.
Come sarebbe oggi una politica migliore? O quella che ho definito una “sinistra decente” dopo l’11 settembre? Dovrebbe opporsi sia ad Hamas che all’attuale governo israeliano. Dovrebbe essere orientata alle persone, preoccupandosi tanto del benessere dei palestinesi quanto di quello degli israeliani. Per i palestinesi, ciò significa, in primo luogo, un piano di ricostruzione per Gaza e, in secondo luogo, aprire la strada all’autodeterminazione. Per gli israeliani, significa ripristinare la sicurezza fisica dopo il trauma del 7 ottobre. Tutte queste richieste hanno una precondizione cruciale: la sconfitta dei fanatici religiosi e degli ideologi di entrambe le parti (…). Per la sinistra è giunto il momento di rinunciare all’ideologia e di puntare esclusivamente su una vita di sicurezza e di benessere per israeliani e palestinesi.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale