un foglio internazionale
Perché il multiculturalismo ha fallito
L’attacco alla vecchia eredità culturale non porta a nuove forme di appartenenza, ma solo a una sorta di alienazione. Roger Scruton ci ha spiegato cosa non ha funzionato nel modello inglese
Pubblichiamo un estratto dal libro “Essere conservatori” (D’ettoris editore) di Roger Scruton dedicato al multiculturalismo inglese.
La correttezza politica ci esorta a essere quanto più “inclusivi” possibile, a non discriminare né in pensieri, né in parole, né in opere le minoranze etniche, sessuali, religiose e comportamentali. E per essere inclusivi ci si spinge a denigrare ciò che viene avvertito come più squisitamente nostro.
Il direttore generale della Bbc ha recentemente condannato la sua stessa organizzazione per i suoi programmi odiosamente “bianchi” e orientati al ceto medio. Gli accademici sogghignano davanti ai programmi culturali ideati dai “Dead White European Males”. Un’associazione caritativa che si dedica alle relazioni fra le etnie ha condannato come razzista l’affermazione che esiste una identità nazionale “britannica”. Tutte queste espressioni abusive ci dicono qual è oggi la cifra della correttezza politica. Perché, sebbene queste espressioni riguardano chi condanna intenzionalmente le persone per ragioni di classe, di razza, di sesso o di colore, il loro intento non è quello di escludere costoro - “l’Altro” -, ma di spingerci a colpevolizzarci. La nobile difesa dell’inclusione maschera in realtà il desiderio tutt’altro che nobile di escludere il vecchio esclusore: in altre parole, di ripudiare l’eredità culturale che ci definisce come nazione.
La mentalità dell’“abbasso noi” pretende di sradicare i vecchi e insostenibili lealismi. E quando i vecchi lealismi muoiono, altrettanto accade alle vecchie forme di appartenenza. L’Illuminismo sembra sfociare per sua dinamica intrinseca in una “cultura del rifiuto”, distruggendo in tal modo i frutti dell’“illuminazione” e minando le certezze su cui si fonda la cittadinanza. Questo è ciò di cui siamo testimoni nella vita intellettuale dell’Occidente.
Ma chi siamo “noi”? E su che cosa siamo d’accordo? Prendete i saggi di Richard Rorty e lo scoprirete presto. “Noi” sono le femministe, i liberal, i sostenitori della liberazione dei gay e dei programmi di studio “aperti”; “noi” è chi non crede in Dio e nemmeno in una qualunque religione tradizionale; né le vecchie idee di autorità, di ordine e di autodisciplina hanno alcun valore per “noi”. “Noi” ci formiamo un’opinione quanto al significato dei testi, creando attraverso le nostre parole quel consenso di cui siamo parte. Su di noi non incombe alcun vincolo, al di fuori di quello della comunità a cui abbiamo scelto di appartenere. E poiché non esiste una verità oggettiva, ma solo il nostro consenso che produciamo da noi, la nostra posizione è inattaccabile da qualsiasi punto di vista si situi al di fuori di essa. Il pragmatista non solo può decidere che cosa pensare: può difendere se stesso da chiunque non la pensi allo stesso modo.
La ummah islamica — la società di tutti i credenti — è stata e rimane il più ampio esempio di consenso di opinioni che il mondo abbia mai conosciuto. Essa riconosce espressamente il consenso (ijma’) come il criterio di verità della religione e s’impegna in uno sforzo incessante di includere il maggior numero possibile di soggetti nella sua onnicomprensiva prima persona plurale. Inoltre, qualunque cosa Rorty intenda per “buone” o “migliori” credenze, il pio musulmano può sicuramente contare sul fatto di avere dalla sua alcune fra le migliori: convinzioni che danno sicurezza, stabilità, felicità, presa sul mondo, nonché una coscienza disinvolta nei confronti del kāfiroun, l’infedele, cioè chi la pensa diversamente da lui. Ciononostante, non si avverte forse l’inquietante sensazione che queste credenze rincuoranti possono non essere vere e che le snervate opinioni dell’ateo postmoderno possono anche avere un vantaggio nei loro confronti?
Noi che viviamo nell’ambiente amorfo e multiculturale della città post-moderna dobbiamo aprire i nostri cuori e le nostre menti a tutte le culture, senza sposarne nessuna. Il risultato inevitabile di ciò è il relativismo: il riconoscimento, cioè, che nessuna cultura può vantare alcun diritto speciale ad avere la nostra attenzione e nessuna cultura può essere giudicata o respinta per motivi a essa estrinseci.
La cultura del rifiuto segna il crollo dell’Illuminismo anche in altri modi. Come capita di frequente di osservare, lo spirito di libera ricerca sta ormai scomparendo dalle scuole e dalle università dell’Occidente. I libri sono inseriti oppure espunti dai programmi di studio per motivi di correttezza politica; i codici linguistici e i servizi di consulenza dei vari atenei sorvegliano il linguaggio e il comportamento sia degli studenti, sia dei docenti; molti corsi sono progettati con la finalità di inculcare il conformismo ideologico e non la libertà di ricerca, e gli studenti sono spesso penalizzati se tirano qualche conclusione considerata eretica su temi all’ordine del giorno. Nelle aree delicate, come per esempio lo studio della razza e del sesso, la censura è apertamente diretta non solo contro gli studenti, ma anche contro ogni insegnante, per quanto imparziale e scrupoloso, che se ne esca con delle conclusioni “sbagliate”. Un unico tema accomuna le discipline umanistiche così come le si insegna di norma nelle università americane ed europee ed è quello della illegittimità della civiltà occidentale e della natura artificiale delle specificità su cui essa riposa. Tutte le specificità sono “culturali”, quindi “costruite”, quindi “ideologiche” nel senso definito da Marx, cioè prodotte dai gruppi o dalle classi dirigenti per servire ai loro interessi e per rafforzare il loro potere. La civiltà occidentale testimonia tout court questo processo di oppressione e l’obiettivo principale del suo studio è di decostruire la rivendicazione di esserne membri.
L’atteggiamento di “non giudicare” le altre culture va di pari passo con la feroce messa sotto accusa della cultura che potrebbe essere la propria, come siamo stati più volte testimoni osservando i maggiori gruppi di opinione americani dopo l’11 settembre 2001. Sfortunatamente, però, non esiste una comunità fondata sul rifiuto. L’attacco alla vecchia eredità culturale non porta a nuove forme di appartenenza, ma solo a una sorta di alienazione. Per questo motivo, mi sembra, dobbiamo essere culturalmente conservatori. L’alternativa è quel nichilismo che si nasconde sotto la superficie degli scritti di Rorty, Sa’id, Derrida e Foucault.
Forse l’aspetto peggiore di questo nichilismo è l’abitudine di accusare di “razzismo” chiunque pensi di indossare, di insegnare e di sostenere i valori della civiltà occidentale. La paura che genera l’accusa di razzismo ha indotto, un po’ in tutto il mondo occidentale, commentatori, politici e membri delle forze di polizia a smettere di criticare o a non prendere più i provvedimenti dovuti contro le molte pratiche apertamente criminali che si sono impiantate in mezzo a noi: pratiche quali i matrimoni forzati, la circoncisione femminile e l’uccisione per “onore” oppure la sempre più frequente intimidazione, che gl’islamisti attuano contro chiunque, anche solo lontanamente, critichi la loro fede.
L’accusa di “razzismo” si fonda su una profonda menzogna: la menzogna che la razza e la cultura sono la medesima cosa, mentre in realtà non hanno nulla a che fare l’una con l’altra.
Ed è proprio questo che rende esitanti i multiculturalisti. La cultura, non la natura, dice a una famiglia che la figlia che si è innamorata di qualcuno al di fuori della cerchia ammessa deve essere uccisa; che le ragazze devono subire mutilazioni genitali, se vogliono essere rispettabili; che l’infedele deve essere eliminato quando lo comanda Allah. Si possono leggere queste cose e pensare che esse appartengano alla preistoria del nostro mondo. Ma quando all’improvviso accadono in mezzo a noi, allora la nostra attenzione si risveglia circa la verità della cultura che le ha ispirate. E siamo inclini a dire che non è la nostra cultura e che certe cose non hanno cittadinanza qui da noi. E saremo probabilmente anche tentati di fare un passo più in là, entrando in quella fase cui l’Illuminismo invita naturalmente, e di dire che non hanno cittadinanza da nessuna parte.
Con il tempo, gli immigrati possono venire a condividere queste cose con noi: l’esperienza dell’America ne dà ampia testimonianza. E ciò accadrà con maggiore facilità quando costoro riconosceranno che, nel senso pregnante della parola, la nostra cultura è anche una multicultura, che incorpora elementi assorbiti in tempi antichi da tutto il bacino del Mediterraneo e in tempi moderni dalle avventure di commercianti ed esploratori europei in tutto il mondo. Ma questa cultura caleidoscopica è ancora una sola realtà, che ha al suo cuore un insieme di princìpi inviolabili ed è la fonte della coesione sociale in Europa come in America. La nostra cultura ammette una grande varietà di modi di vivere e permette alle persone di privatizzare la loro religione e le loro usanze familiari, pur appartenendo a una sfera pubblica fatta di rapporti aperti e di lealismi condivisi e ciò avviene perché si definisce lo spazio pubblico in termini giuridici e territoriali e non nei termini di un credo o di legami di parentela.
Che cosa succede quando le persone la cui identità è definita da un credo o dalla parentela emigrano in luoghi civilizzati dove vige la cultura occidentale? Gli attivisti dicono che bisogna far loro posto, concedendo loro uno spazio adeguato in cui la loro cultura può prosperare. La nostra classe politica ha finalmente riconosciuto che questa è la ricetta per il disastro e che possiamo accogliere immigrati solo se li accogliamo nella nostra cultura e non a fianco o contro di essa. Ma questo significa dir loro che devono accettare regole, costumi e procedure che possono essere estranei al loro precedente modo di vita. Si tratta di un’ingiustizia? Non mi pare. Se gli immigrati arrivano, è perché vi trovano la loro convenienza. È pertanto ragionevole ricordare loro che ciò comporta anche un costo. Solo da poco, però, la nostra classe politica è pronta ad ammetterlo, insistendo che il costo va pagato.
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