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Un Foglio internazionale

Propaganda sovietica su Israele

L’idea che lo stato ebraico sia razzista, genocida e apartheid non nasce oggi, ma negli anni 80 negli uffici ideologici del Partito comunista di Mosca

"L’idea che Israele stia commettendo un genocidio contro i palestinesi è una delle più antiche menzogne diffuse su quel paese” scrive Izabella Tabarovski su Le Point. “’Genocidio israeliano’, ‘genocidio sionista’, ‘soluzione finale alla questione palestinese’. Si potrebbe pensare che queste frasi siano state prese da una recente manifestazione pro-palestinese, e invece no, provengono da un opuscolo di epoca sovietica. Intitolato “I sionisti traggono profitto dal terrore”, è stato pubblicato nel 1984 da Novosti, organo di propaganda estera sovietico che si faceva passare per un’agenzia di stampa. Lo scopo dell’opuscolo? Promuovere la visione sovietica di Israele e del sionismo presso un pubblico di lingua inglese. Tanti lettori di tutto il mondo sono stati indotti a credere che i sionisti fossero orribili colonizzatori genocidi e razzisti, servi dell’imperialismo mondiale che usavano metodi nazisti per reprimere la lotta di liberazione anticoloniale del popolo palestinese.

Nelle sue 76 pagine, il testo utilizza circa 300 volte le varianti delle parole genocidio, terrore e razzismo. Novosti ci dice anche, nero su bianco, in un centinaio di casi, che i sionisti sono infidi traditori che lavorano per la Cia, l’Mi6 e, naturalmente, il Mossad. E quando gli ebrei affermano di essere vittime dell’antisemitismo? Nient’altro che trucchi sionisti per distogliere l’attenzione dai crimini di Israele. Calunnie che senza dubbio conoscerete se avete ascoltato la retorica dei circoli progressisti all’indomani del 7 ottobre – il giorno in cui Hamas ha preso d’assalto i kibbutz del sud di Israele per stuprare, torturare, massacrare e compiere saccheggi di massa.

Questo pamphlet di propaganda sovietica, vecchio di quattro decenni, parla lo stesso linguaggio dell’estrema sinistra contemporanea? Sì, lo parla. O, per essere più precisi, è l’estrema sinistra contemporanea che parla il linguaggio della propaganda sovietica. La cosa più incredibile della retorica anti-israeliana che inonda l’occidente oggi è fino a che punto sia un calco dell’ideologia comunista della fine dell’èra sovietica – con gli stessi argomenti, gli stessi leitmotiv, gli stessi slogan e la stessa logica esplicativa. A dicembre, sul New Yorker, la giornalista e saggista Masha Gessen ha esortato la Germania a uscire dall’“ombra dell’Olocausto” liberandosi dai vincoli della “cultura della memoria” e rompendo il tabù che vieta di equiparare Israele alla Germania nazista. Secondo Gessen, Gaza è l’equivalente di un ghetto ebraico nazista e ciò che sta accadendo oggi nella Striscia di Gaza è l’equivalente israeliano della sua liquidazione. In altre parole, un genocidio. A giudicare dagli scambi successivi al suo articolo, Gessen lo aveva scritto convinta che il suo paragone fosse senza precedenti. Eppure questo espediente retorico – che ha anche un nome: inversione dell’Olocausto - è vecchio di decenni. È nato in Unione Sovietica ed è stato utilizzato per la prima volta a fini di propaganda di massa all’indomani della guerra arabo-israeliana del 1967.

“Abbiamo imparato la lezione della Seconda guerra mondiale”, recitava la didascalia di una vignetta raffigurante un soldato israeliano che sorrideva e pensava a Hitler. Un’altra, un disegno di uno scheletro nazista che consegna a un soldato di Tsahal una valigia piena di strumenti di tortura macchiati di sangue e una mappa di Auschwitz, recitava “Riunione di famiglia”. Sullo sfondo di questi disegni ci sono edifici di campi di concentramento in fiamme, ossia l’immagine della liquidazione dei ghetti che Gessen ha fatto rivivere mezzo secolo dopo sulle prestigiose colonne del New Yorker. Possiamo accettare le analogie storiche, purché facciano luce sul presente. Ma l’equazione “Gaza = ghetto ebraico” crolla non appena la si analizza da vicino. Gli ebrei che sono morti durante l’Olocausto avrebbero sognato di avere un decimo dell’arsenale che Tsahal sta continuando a scoprire a Gaza. Gli ebrei non hanno lanciato razzi in Germania. Così come non hanno stuprato, torturato sessualmente e mutilato le donne tedesche, o rapito i loro figli. E nessuno ha avuto l’idea di trasformare i ghetti in fiorenti città-stato simili a Singapore, come forse molti speravano per Gaza quando Israele si è ritirato nel 2005 (speranze che Hamas ha vaporizzato dirottando miliardi di euro di aiuti stranieri verso le sue infrastrutture terroristiche). I ghetti non avevano agenzie internazionali dedicate al loro benessere. Se gli ebrei erano rinchiusi nei ghetti, era per un unico scopo: essere massacrati. Ed è proprio quello che è accaduto, mentre il mondo rimaneva in silenzio. Chi ricorre a questo falso paragone con l’Olocausto non lo fa per chiarire il presente, ma per suscitare l’indignazione e provocare quel tipo di reazioni anti-israeliane che vediamo prendere forma in ogni angolo del mondo. 

Anche Gessen ammette la mediocrità della sua analogia. I nazisti non avevano bisogno di rinchiudere gli ebrei nei ghetti, mentre Hamas rappresenta una minaccia reale e immediata per gli israeliani. “Sono differenze essenziali”, dice Gessen. Allora perché usare questa analogia? Forse per scioccare il suo pubblico. È proprio perché è così scioccante che deve essere usata, ha spiegato Gessen in un’intervista. Ma questa “strategia dello choc” deve essere misurata rispetto a ciò che ha prodotto per gli ebrei nel corso degli anni. L’accademica britannica Lesley Klaff ha scritto nel 2014: “Equiparare Israele ai nazisti è una componente importante dell’incitamento all’odio antisemita e del peggioramento della situazione degli ebrei nel Regno Unito oggi”. Deborah Lipstadt, nota storica dell’Olocausto, descrive il paragone come un’“altra faccia del negazionismo soft”. Perché? Perché moltiplica “per un milione qualsiasi atto riprovevole che Israele potrebbe aver commesso” e sminuisce, secondo lo stesso ordine di grandezza, “ciò che i tedeschi hanno fatto”. L’Olocausto rovesciato è solo un esempio di come la tossicità della retorica antisionista sovietica continui a diffondersi nell’estrema sinistra contemporanea. Il “progressismo” di oggi è guidato da un’ideologia all’incrocio tra marxismo, intersezionalità, post-colonialismo e teoria critica, e sfrutta tutta una serie di strumenti retorici ideati, perfezionati e testati dai maestri sovietici della sovversione ideologica durante l’ultimo quarto di secolo della Guerra Fredda (…). I nostri progressisti non hanno più paura di assomigliare ai nazisti, così come non ricordano più chi ha votato per la creazione di Israele – né che la nascita di questo paese è stata votata dall’Onu. Privi di qualsiasi consapevolezza storica, sono facili bersagli per i manipolatori contemporanei che li alimentano con agit-prop di una forza industriale risalente ad anni passati”.  (Traduzione di Mauro Zanon)
 

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