un foglio internazionale
Paty e la fatwa a processo
L’assassinio del professore reo di “islamofobia”. Il caso che nel 2020 ha scosso tutta la Francia ripercorso in un libro agghiacciante
A partire dal 4 novembre, una corte d’assise speciale processerà coloro che hanno seminato l’odio che ha portato alla morte di Samuel Paty, professore di Storia e Geografia del collège du Bois d’Aulne di Conflans-Sainte-Honorine, decapitato da un jihadista di origini cecene il 16 ottobre 2020. Émilie Frèche, autrice di due libri sul caso, “Le Professeur” e “Les Cours de Monsieur Paty”, scritto con la sorella dell’insegnante, Mickaelle Paty, analizza l’affaire che ha scosso la Francia.
Il 16 ottobre 2020, Samuel Paty, insegnante di Storia e Geografia a Conflans-Sainte-Honorine (dipartimento delle Yvelines), è stato assassinato e decapitato fuori dalla sua scuola per aver mostrato dieci giorni prima una caricatura di Maometto alle sue due classi. Sono venuta a conoscenza della tragedia la sera, mentre aspettavo un amico seduta in un dehors con la stessa tranquillità di un certo 13 novembre e, alla parola “decapitato”, ricordo di essermi sentita sprofondare. Ho riletto quella parola più volte, come se appartenesse a una lingua straniera; l’ho detta ad alta voce al mio amico quando è arrivato, con quel tono incredulo che incute timore; poi mi è tornato in mente il ricordo del Cavaliere de La Barre, l’ultimo francese condannato per aver profanato un crocifisso e anch’egli decapitato, ad Abbeville, nel 1766 – era questo crimine e questa pena che gli islamisti avevano appena riabilitato sul nostro territorio.
Quattro anni dopo, mentre la Corte d’assise speciale di Parigi si appresta a giudicare, dopo la condanna di sei minorenni, otto adulti accusati di aver partecipato alla macchina infernale che ha portato al massacro di questo insegnante, mi chiedo ancora se abbiamo preso collettivamente coscienza di ciò che quest’uomo ha subìto e, attraverso di lui, di ciò che questo significa per il nostro paese. Ma forse è una realtà troppo violenta da accettare, a meno che non ci si trovi di fronte, come è successo a me per i due libri che ho scritto sull’attentato, alla fotografia del corpo dell’uomo: un corpo senza testa, disteso a pancia in giù in un canale di scolo, vestito con un semplice parka beige, jeans scoloriti e un paio di scarpe da ginnastica, con ancora uno zaino sulla schiena, ma che la violenza dei colpi aveva fatto rovesciare sul marciapiede, e, a sinistra di questo corpo senza testa, una testa senza occhiali, insanguinata alla base e distesa perpendicolarmente al tronco, sola sulla strada. Sì, teniamo a mente questa immagine per non dimenticare la guerra che viene condotta contro di noi, così come il contesto in cui si inserisce questa “condanna” islamista.
Samuel Paty non è stato ucciso in una data qualsiasi del calendario. E’ stato ucciso nel bel mezzo del processo che ha fatto seguito agli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo il 7 gennaio 2015, e la sua morte, in fondo, non è stata altro che una replica di quel terremoto. Il processo è iniziato il 2 settembre 2020 a Parigi. Il giorno prima, il giornale satirico aveva ripubblicato le vignette del profeta Maometto, considerandole “prove”. Emmanuel Macron si trovava a Beirut in quel momento e, interrogato su quella scelta editoriale, ha difeso la libertà di blasfemia. Ciò ha scatenato le ire di Turchia, Egitto e Pakistan, trasmesse alla Francia dai media francofoni affiliati a questi paesi. Subito, sui social network, si sono moltiplicati i messaggi di odio contro Charlie Hebdo, e la settimana successiva, mentre i parenti delle vittime testimoniavano in tribunale, al Qaeda ha dichiarato che “colui che insulta (il Profeta) deve essere ucciso”, incoraggiando i musulmani che vivono in Europa ad agire. La prima vittoria è arrivata il 25 settembre, quando un pakistano ha attaccato due giornalisti con una mannaia fuori dagli ex uffici di Charlie Hebdo, lasciandone uno sfigurato e l’altro in coma per diversi mesi.
Ecco lo sfondo. Ecco l’atmosfera in cui, il 7 ottobre 2020, Brahim Chnina ha fatto parlare di sé pubblicando un video in cui definiva “delinquente” l’insegnante di Storia e Geografia di sua figlia, e sosteneva che quest’ultimo l’avrebbe espulsa da scuola per due giorni per essersi rifiutata di uscire dall’aula, insieme ad altri alunni musulmani, mentre mostrava alcune immagini del profeta nudo. L’alunna era in realtà assente dalla classe, ma questo non ha impedito a Chnina di fare il nome di Samuel Paty, quello del preside della scuola, e di esortare la sua comunità a mobilitarsi per “licenziare questo pazzo”. Il giorno dopo, il video è stato diffuso dalla moschea di Pantin ai suoi 100.000 follower su Facebook, e Chnina, descritto come un “nuovo informatore” dalla radio France Maghreb 2, è stato invitato a testimoniare ai microfoni dell’emittente radiofonica. Fra i contatti di Chnina figurava un certo Abdelhakim Sefrioui, schedato “S”, ben noto ai servizi di intelligence per il suo attivismo a capo del collettivo Cheickh Yassine, associazione da lui stesso creata nel 2004 in omaggio al fondatore di Hamas. La sera del 7 ottobre 2020, Sefrioui ha reagito al post di Chnina: “Dobbiamo assolutamente agire”. L’8, i due uomini si sono recati al collège de Bois-d’Aulne per chiedere al preside di licenziare Samuel Paty. Non ottenendo alcun risultato, l’attivista islamista ha fatto un passo avanti e ha pubblicato un video intitolato “L’islam e il Profeta insultati in una scuola media pubblica, il vero separatismo”, che ha inviato a più di 6.000 contatti tra il 12 e il 16 ottobre. (…).
Il giorno dopo la lezione di Samuel Paty sulla libertà di espressione, il profilo di Sefrioui era stato segnalato dalla preside della scuola ai suoi superiori, che hanno immediatamente informato la polizia municipale, il servizio di intelligence territoriale e il ministero dell’Interno. Ma per i successivi undici giorni, l’unica cosa a cui pensavano questi servizi era come evitare che la minaccia di una manifestazione musulmana davanti alla scuola “disturbasse l’ordine pubblico con il rischio di una copertura mediatica”.
Che cosa ha scritto Riss nell’editoriale di Charlie Hebdo del 2 settembre 2020? “Non ci piegheremo mai. Non ci arrenderemo mai”. Avremmo voluto che i fatti gli dessero ragione, ma in questo caso né la legge, né l’esecutivo, né l’amministrazione sono riusciti a mettere fuori gioco i predicatori di odio e a proteggere Samuel Paty. Rimane ora il potere giudiziario. E’ ancora in grado di opporsi alla guerra condotta contro di noi dall’islamismo radicale? E’ questa la posta in gioco nel processo di sette settimane apertosi il 4 novembre davanti alla Corte d’assise speciale di Parigi.
(Traduzione di Mauro Zanon)
Il Foglio internazionale