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Un Foglio internazionale

La fine woke di Trudeau

Eletto come un eroe, il premier canadese lascia la  politica sotto il peso di un identitarismo  contrario agli stessi valori che aveva promesso di difendere

In Canada non c’è alcun limite al numero di mandati che un funzionario eletto può ricoprire”, scrive sul Point Jonathan Kay, giornalista canadese. “Ciò che potrebbe sembrare una manna dal cielo per gli ambiziosi è in realtà più spesso una maledizione, con politici che restano aggrappati al loro posto anche dopo il declino della loro popolarità, al punto da sbiadire la loro eredità. Risultato: ex primi ministri (come Brian Mulroney e Jean Chrétien, per citare solo due esempi) trascorrono la loro vecchiaia in  carriere di lobbisti o oratori aziendali. 

 

Justin Trudeau, che ha annunciato le sue dimissioni lunedì 6 gennaio, è un caso particolarmente triste. Trionfatore nel 2015 con una schiacciante maggioranza parlamentare, durante il suo primo mandato aveva saputo onorare la fiducia accordatagli dagli elettori. Di fronte agli assalti protezionistici di Donald Trump, aveva dato prova di pazienza e tatto. Aumentando le aliquote fiscali sui più ricchi per ridurre le diseguaglianze, legalizzando la marijuana e permettendo l’accesso all’assistenza medica a morire (ora chiamata Maid) – tutte riforme che ho sostenuto. Sul palcoscenico internazionale, Trudeau è diventato una figura emblematica, quasi un anti-Trump, incarnando allo stesso tempo, per un breve periodo, una forza di coesione nazionale. Come ho scritto su Foreign Affairs nel 2017, i valori che difendeva all’epoca – liberali sia in senso moderno che classico – risuonano in tutto lo spettro politico canadese. Ma oggi l’indice di popolarità di Justin Trudeau tra i canadesi è così basso che si potrebbe quasi dimenticare l’entusiasmo generato durante i suoi anni di grazia. Se avesse lasciato la politica nel 2019, agli albori del suo declino, oggi sarebbe senza dubbio una figura rispettata, che siede in una prestigiosa università, in un’influente Ong o addirittura alle Nazioni Unite. Ma ha scelto di restare, partecipando a due elezioni ravvicinate in cui ha perso il voto popolare a favore dei conservatori e formando allo stesso tempo governi di minoranza sempre più minati dagli scandali. 

Come molti canadesi, credevo in Justin Trudeau. Tanto che, nel 2014, ho rischiato la mia carriera in un giornale conservatore accettando di essere la penna delle sue memorie. Nonostante gli sforzi dei conservatori di ridurlo a un chiacchierone totalmente impreparato a governare il Canada, ho scoperto un uomo maturo, illuminato, serio e, va detto, incredibilmente carismatico. Ciò che mi ha particolarmente colpito è stato l’amore profondo e vibrante che nutre per il Canada – il filo conduttore del libro che abbiamo finito per scrivere insieme, ‘Common Ground’. Il Trudeau del 2014 e di ‘Common Ground’ era tutt’altro che woke. Aveva persino denunciato apertamente i politici opportunisti che cercavano di balcanizzare la società canadese sulla base del colore della pelle o di altri segni superficiali. 

‘La politica identitaria avrebbe potuto essere usata per entrare in contatto con gli elettori, una classica strategia dividi et impera favorita da altri partiti, ma non avevo alcuna intenzione di percorrere quella strada’, si legge su ‘Common Ground’. ‘Ho cercato di costruire un terreno comune attorno a valori che ritenevo ampiamente condivisi’. 

All’epoca ero convinto che il Canada avesse bisogno di sentire questo tipo di discorsi. Il primo ministro conservatore uscente, Stephen Harper, aveva dimostrato che la destra non si faceva scrupoli a praticare la propria versione di politica identitaria quando le faceva comodo, come dimostrava la sua legge sulla tolleranza zero per le pratiche culturali barbare e la relativa linea telefonica che incoraggiava i canadesi a denunciare i loro vicini. Molti dei miei amici conservatori sembravano pronti a trasformare le elezioni generali del 2015 in un campo di battaglia per la guerra culturale americana, persino in una crociata per salvare l’anima della civiltà occidentale. Al contrario, l’approccio di Trudeau, fondato sulle ‘vie solari’ e guidato dal tono decisamente ottimista della sua campagna, aveva qualcosa di profondamente rinfrescante. Di irresistibile. Ma sappiamo tutti come è andata a finire. Lungi dal rifiutare la ‘politica identitaria’ e dal ‘trovare un terreno comune’, Trudeau è sprofondato nelle paludi della politica razziale e del gender, diventando alla fine il portabandiera di questo approccio in Canada. Durante il suo secondo mandato, ha definito il proprio paese uno stato genocida, ha accusato i suoi avversari conservatori di complicità col suprematismo bianco e ha affermato che il ‘razzismo sistemico’ infetterebbe tutte le nostre istituzioni (…). 

Nel suo frenetico zelo per allinearsi agli attivisti dei social network post George Floyd, Trudeau ha iniziato a condizionare la spesa pubblica al colore della pelle dei beneficiari, introducendo una forma di segregazione razziale totalmente estranea ai valori canadesi – ma di cui i suoi ministri si vantano ancora oggi. Sotto la sua guida, la Cbc, un’emittente pubblica finanziata dallo stato, ha abbandonato ogni pretesa di imparzialità per diventare un megafono della propaganda per la giustizia sociale, in gran parte ispirata dagli Stati Uniti. In particolare, ha lanciato una sezione dedicata ai media intitolata  ‘Being Black in Canada’ (essere neri in Canada), caratterizzata da un’iconografia stereotipata di pugni chiusi (…). 

 

Nel 2014, Trudeau ha ereditato un Canada socialmente liberale in cui il matrimonio gay era (per fortuna) ampiamente accettato, anche dai conservatori. Ma oggi, a causa del radicalismo degli attivisti trans finanziati dai contribuenti e di una vera e propria saturazione della propaganda, le comunità LGB & T canadesi stanno subendo un violento contraccolpo (…). 

L’ascesa e la caduta di Justin Trudeau non raccontano solo la storia del fallimento di un politico, ma illustrano anche i danni causati dall’ideologia della giustizia sociale sulla governance. Il messaggio fondamentale di Trudeau – incarnato dal titolo del suo libro, al centro del suo fascino e motivo per cui ho accettato di collaborare con lui – era semplice: il Canada è un grande paese e i canadesi devono unirsi attorno a valori condivisi e obiettivi comuni. Ma il dogma della giustizia sociale, che ha adottato senza riserve e che attinge a piene mani dalle correnti ideologiche americane, è in totale contraddizione con questo spirito unificante. Impone un’interpretazione inflessibile, pessimistica e divisiva delle relazioni razziali, trasformando ogni divergenza in una frattura inconciliabile. Di fronte a due visioni inconciliabili, Trudeau ha scelto quella che sembrava più alla moda, rinnegando così i principi che lui stesso aveva difeso con tanta convinzione”.

(Traduzione di Mauro Zanon)

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