VERDE ALORS!

Alberto Brambilla

    AGreta Thunberg, la bambina prodigio e la nuova faccia del movimento giovanile per combattere i cambiamenti climatici, hanno raccontato una favola millenarista sulla fine imminente del pianeta per colpa dell'essere umano. Greta, nata quindici anni fa a Stoccolma, ha imparato la favola e la racconta da un un po' ai rappresentanti dei governi alle Nazioni Unite e ai big della finanza e della tecnologica al World economic forum di Davos accusandoli di averci “messo in questo casino”. Greta dice alle élite che “noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no”, che “siete rimasti senza scuse e noi siamo rimasti senza più tempo”. Per questo invoca “giustizia climatica” per il popolo. Lo scorso agosto Greta ha pedalato sulla sua bicicletta fino al Parlamento svedese, tre settimane prima delle elezioni, sedendosi sui ciottoli del marciapiede con un cartello dipinto a mano “sciopero per il clima”. Lo scorso venerdì migliaia di studenti, in oltre settanta paesi, hanno imitato l'iniziativa, hanno saltato le lezioni, e hanno letto fuori dalle scuole la preghiera climatica della bambina che vuole salvare il mondo. La genesi dello “school strike” è in un post su Twitter dell'account “We don't have time” – non abbiamo più tempo (sottinteso: per salvare il pianeta) –, una start-up fondata e guidata dal comunicatore Ingmar Rentzhog che ha come logo un orologio a pochi istanti dallo scoccare della mezzanotte, l'ora “x” della fine dei giorni. Il tweet del 20 agosto con la bambina sola davanti al palazzo del potere ha tra i “tag” il movimento giovanile per la giustizia climatica “Zero Hour” (l'ora zero), la sua fondatrice adolescente Jamie Margolin, e il Climate Reality Project del pioniere della rivolta contro il climate change Al Gore. Rentzhog, fondatore di una società di comunicazione svedese per servizi finanziari, la Laika, è membro dell'organizzazione dell'ex vicepresidente democratico Al Gore e da lui è stato istruito a Denver nel 2017 e a Berlino l'anno scorso. Al Gore è partner della “We don't have time” di Rentzhog. A simpatizzare per la campagna di Greta c'è insomma la stessa compagnia che nell'ultimo decennio ha raccontato al mondo “La scomoda verità” (è il titolo del docu-film di Gore del 2006) del riscaldamento globale contro i politici e gli accademici che ridimensionavano o negavano la minaccia, i “deniers”. Con Greta il messaggio diventa più minaccioso: dice che il tempo è scaduto. Si era prefigurato, lo scorso 1° agosto, l'Earth overshoot day, il punto di non ritorno, per cui senza basi scientifiche veniva prevista la “fine delle risorse nutritive” planetarie. L'umanità ha superato con successo quella previsione (siamo ancora vivi). Ora i nemici di Al & Greta non sono più i negazionisti ma quelli che ritardano la soluzione del problema, i “delayers”. La sfida per gli amici di Greta è cambiare modello di sviluppo entro il 2030 – in soli dieci anni – eliminando i combustibili fossili dalla generazione di energia: “Dobbiamo lasciarli sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull'uguaglianza”, prega la bambina.

    In questa frase c'è il succo della propaganda mendace dell'estremismo ambientalista, rimasta pressoché immutata negli ultimi decenni. La prima falsità è che si possa evitare di usare combustibili fossili, “lasciarli sotto terra”. Secondo le previsioni del World energy outlook 2018 di Bp, colosso energetico inglese, col quale altre analisi sono allineate, nel 2040 la produzione di energia mondiale arriverà ancora al 74 per cento dai fossili – dal petrolio (27 per cento), dal gas naturale (26) e dal carbone (21). La seconda falsità, implicita, nonché vecchia bufala, è che il petrolio non serve più: la domanda petrolifera mondiale ha superato i 100 milioni di barili/giorno, un record storico. L'idroelettrico rimarrà invece stabile al 7 per cento nei prossimi trent'anni. Anche il nucleare rimarrà stagnante (dal 4 al 5 per cento) proprio per la volontà politica di depotenziarlo benché sia un perfetto sostituto della generazione di energia elettrica da carbone. La terza menzogna è che non ci sia sensibile sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili: sempre secondo Bp al 2040 passeranno dal 4 al 14 per cento – un aumento del dieci per cento – del portafoglio energetico mondiale perché incentivate dagli stati benché incapaci di sostenere da sole le attività umane esistenti, in quanto vento e solare sono intermittenti e quindi inaffidabili. Se per ipotesi la produzione di energia dovesse essere rimpiazzata immediatamente da eolico e solare ci troveremmo senza corrente elettrica, e la catastrofe sarebbe davvero immediata. Le rinnovabili hanno una importanza crescente e ormai sono arrivate ad avere costi competitivi, il problema sono gli accumulatori per conservare l'energia prodotta che altrimenti viene dispersa: la soluzione sta in più investimenti in tecnologia per riuscirci (non certo nella fuga dalla tecnologia) e così avere un congruo ritorno in termini di produzione energetica in paragone all'impiego di risorse naturali necessarie a costruire gli impianti eolici e solari. Agli attivisti ambientali piacciono le rinnovabili perché non emettono anidride carbonica, ma dimenticano dei minerali e del petrolio necessari per realizzare una pala eolica che – a parità di energia prodotta – consuma acciaio e ferro in quantità quindici volte superiori alle centrali a carbone e cento volte rispetto ai metanodotti. (segue a pagina due)

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.