Salvini non può non dirsi filocinese. L'atlantismo farlocco della Lega

Valerio Valentini

    Roma. Poi, all'improvviso, Matteo Salvini riscoprì l'atlantismo. E' successo alla fine, quando ormai la pallina che rotolava sul piano inclinato della Via della seta era impossibile da fermare. E forse proprio perché consapevole del ritardo con cui aveva trovato la sua fede, il capo della Lega ha esibito la conversione con uno zelo perfino sospetto, mentre il suo collega vicepremier Luigi Di Maio si accingeva a firmare il memorandum d'intesa sotto gli occhi del “presidente Ping”. “Non mi si dica che la Cina è un paese dove vige il libero mercato”, ha sbottato il ministro dell'Interno sabato scorso sul palco del Forum di Confcommercio a Cernobbio, stando attento a tenersi alla larga dalle cene e dalle passerelle romane nelle quali si celebrava l'accordo tra il governo gialloverde e quello di Xi.

    Salvini parla insomma, ormai da settimane, col piglio del convinto filoamericano che diffida della Cina e delle sue mire espansionistiche. E lo fa col candore di chi pare ignorare che, a fare sì che l'Italia fosse il primo paese del G7 a siglare un'intesa prettamente politica col governo comunista di Pechino, è stata proprio la Lega. E' con la spilla di Alberto da Giussano appuntata sul bavero della giacca, infatti, che Michele Geraci è entrato al Mise, come sottosegretario con delega al Commercio estero. Ed è con quella stessa spilla che, nell'agosto del 2018, ha creato la mitologica Task Force Cina con l'“obiettivio primario” di “potenziare i rapporti fra Cina e Italia in materia di commercio, finanza, investimenti e R&D e cooperazione in paesi terzi, facendo sì che l'Italia possa posizionarsi come partner privilegiato e leader in Europa in progetti strategici quali la Belt and Road Initiative e Made in China 2025”. Un disegno che, appunto, ora sembra compiersi con la firma del memorandum.

    “In Cina – ha denunciato con l'ingenuità del neofita Salvini – lo stato interviene nell'economia, nella giustizia, nell'informazione”. Deve averlo scoperto di recente, Salvini, che questi sono tutti motivi che sconsigliano di firmare accordi commerciali con Pechino. Peccato però che proprio esaltando il modello economico illiberale della Cina Geraci abbia guadagnato la stima e l'ammirazione di Salvini. Era il 16 luglio del 2017, infatti, quando l'ingegnere palermitano Geraci veniva invitato dal capo del Carroccio a Piacenza – i due arrivarono insieme, dopo un viaggio in macchina da Milano – a illustrare le mirabolanti strategie di sviluppo di Pechino. “Qui oggi cominciamo a scrivere il nostro programma di governo”, annunciava Salvini, presentando con tutti gli onori “il professor Geraci”. Il quale, salito sul pulpito, spiegava che ogni anno la Cina stila “una lista dei settori dove gli investimenti stranieri hanno bisogno dell'approvazione del governo: e la lista comprende quasi tutti i settori industriali”. Insomma, il Salvini che oggi predica sull'esigenza della “reciprocità” e della “parità di condizioni” negli scambi commerciali tra l'Italia e la Cina, è lo stesso Salvini che ha inserito nella squadra del suo governo un diplomatico molto vicino al governo cinese che esaltava, appunto, il controllo dell'economia nazionale da parte del governo di Xi. Geraci, a Piacenza, evidenziava come uno dei mantra della programmazione industriale cinese fosse: “Da noi non si investe liberamente”. Dunque, di che reciprocità va parlando, ora, Salvini?

    Che sia per schizofrenia o per sprovvedutezza, o magari per tentare d'ingraziarsi in extremis la benevolenza di Washington in attesa di un futuro ruolo da aspirante premier, resta il fatto che a imporre nella squadra di governo l'uomo che più di tutti si è speso per l'accordo con la Cina è stato proprio Salvini. Nella Lega nessuno lo conosceva, prima dell'estate scorsa. Ancora oggi, se si chiede da dove arrivi Geraci, tutti rispondono, semplicemente: “Chiedete a Matteo”. E Matteo, in tutti questi mesi, non si è mai preoccupato dell'attivismo filocinese di Geraci: neppure quando, alla vigilia della sua promozione a sottosegretario, con una mossa alquanto spregiudicata veniva pubblicato sul blog personale di Beppe Grillo un lungo post in cui lo stesso Geraci parlava della Cina come di un partner strategico per l'Italia, dal quale il nostro paese avrebbe addirittura potuto copiare politiche economiche, industriali, e sulla gestione dei flussi migratori.

    Ancora nelle scorse settimane, Salvini fingeva di predicare prudenza: “Non siamo un centro commerciale cinese”, diceva, “non ci faremo colonizzare”. E mentre lui lanciava questi messaggi di apparente buon senso, il suo sottosegretario allo Sviluppo ribadiva – lo ha fatto anche il 13 marzo scorso, in un convegno sulla “Via della Seta” ospitato dalla leghista Regione Lombardia, durante il quale Geraci ha definito il Giappone “un paese emergente” – la sua visione del sud Italia come di un “hub del Mediterraneo” da offrire alla imprese cinese che investono in Africa come sorta di base d'appoggio europea, “una buona sponda all'interno dell'Ue”, insomma una specie di avamposto cinese tra i due continenti proprio perché “è il posto più vicino all'Africa senza essere in Africa”.

    Se davvero avesse voluto mettere in discussione la stipula del memorandum d'intesa, Salvini non avrebbe dovuto fare altro che ricorrere al più scontato, e abusato, degli espedienti usati più volte da Lega e M5s per stoppare un provvedimento non gradito: bastava, cioè, appellarsi al “contratto di governo”, dove la Cina non viene citata neppure una volta. Non lo ha fatto, Salvini. E anzi il 15 marzo scorso, quando è diventato chiaro che il memorandum sarebbe stato firmato, ha pubblicamente ed esplicitamente ringraziato Geraci, insieme a Di Maio e al premier Giuseppe Conte, “per il grande lavoro fatto”. Un vicepremier così, nei panni dell'atlantista anticinese, sembra davvero poco credibile.

    Valerio Valentini