Il governo litiga perché non ha idea di cosa fare in Libia. Cronaca di un delirio

Lo scontro tra Difesa e Viminale

Valerio Valentini

    Roma. La stato di confusione nel governo è tale che a metà pomeriggio, nel sole calante di Piazza Colonna, un uomo dell'esecutivo del M5s allarga le braccia: “La verità è che lassù nessuno sa bene cosa accidenti fare”, dice, e nel dirlo ammicca alle finestre di Palazzo Chigi. Dove, pochi minuti più tardi, uno degli uomini di fiducia di Matteo Salvini confermerà la lettura: “Poche idee, ma confuse”. Raffaele Volpi, il sottosegretario alla Difesa del Carroccio che da giorni predica l'urgenza della risolutezza, nel cortile di Montecitorio si accende una sigaretta: “E' il momento della responsabilità”, sentenzia. Ma più che altro, nel rimpallo continuo di accuse, di maldicenze reciproche tra due forze che pure si dicono alleate di governo, sembra il giorno dei sospetti.

    “Siamo alle diplomazie parallele”, sbuffa Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia che, quando gli si parla dello stupore ostentato da Lega e M5s circa il sedicente “attacco a sorpresa” di Khalifa Haftar, trattiene a stento una risata: “E' da almeno un mese che giungevano segnali chiari di una imminente offensiva, ma si è rimasti a guardare”. Poi, all'immobilismo e all'afasia, è seguita l'ipercinesia più sconclusionata. E così Salvini, lo accusano i grillini, ha attivato suoi canali propri coi servizi: “Ha chiamato Luciano Carta, capo dell'Aise, scavalcando Giuseppe Conte”. Il quale, allora, sentendosi esautorato, ha preteso un incontro col vicepresidente del Consiglio di Tripoli, Ahmed Maitig, e col ministro degli Esteri del Qatar, Mohamed al Thani. Il tutto, ribattono i leghisti, senza consultarci per niente. E allora ecco che il segretario della Lega, come in un gioco d'infantili ripicche, ha preteso di parlare anche lui, nel segreto del Viminale, con Maitig, per poi esibire un ottimismo di maniera: “Speriamo che il peggio sia passato, il blitz di Haftar è fallito”.

    Un po' troppo, forse, se è vero che nelle stesse ore, a Palazzo Chigi arrivavano dall'intelligence notizie assai meno definitive: “La ripresa dell'offensiva di Haftar va ancora scongiurata”. Ma intanto tra i ministri del M5s, all'ora di pranzo, la preoccupazione era piuttosto quella di capire cosa si fossero detti Salvini e Maitig: “E' mai possibile che la mano destra non sappia ciò che fa la sinistra?”, sbottavano. Ricevendo però, indirettamente, la diffidenza di rimando degli esponenti di governo del Carroccio, che avvicinavano i cronisti in Transatlantico per chiedere se, nelle redazioni, si avessero notizie circa i colloqui che Luigi Di Maio, in viaggio ad Abu Dhabi, stava tenendo col governo emiratino, tra i principali fiancheggiatori di Haftar: “Possibile che non stiano parlando di Libia?”. Possibile, sì, a giudicare da quanto giurano dallo staff del vicepremier: “Il viaggio era finalizzato alla stipula di accordi commerciali, e null'altro”.

    I ministeri che dovrebbero essere coinvolti, insomma, non si parlano. E quando lo fanno, litigano, almeno a giudicare dalla rabbia che, al dicastero della Difesa, esplode a metà pomeriggio, quando la direttiva emanata da Salvini e finita sulla scrivania dell'ammiraglio Valter Girardelli, per evitare, di fatto, l'attracco della nave Mare Jonio nei porti italiani, fa infuriare i generali. “Il ministro dell'Interno che manda un'intimazione al capo di stato maggiore della Marina, che dipende dalla Difesa: ma ci rendiamo conto? Sono cose che accadono nei regimi”.

    E sì che, pure queste, sarebbero questioni del tutto marginali, diversivi da utilizzare per la campagna elettorale e che però degenerano. Giancarlo Giorgetti lo ripete da settimane, che non è di migranti che bisogna parlare, quando si parla di Libia. E infatti con tono liquidatorio, al termine della giunta del Coni che lo vede coinvolto, all'ennesima domanda su porti chiusi o porti aperti taglia corto: “Chiedete a Salvini e Di Maio”. I quali, però non sono d'accordo neppure sul ruolo da attribuire a Maitig. “E' l'uomo giusto su cui puntare per superare lo stallo, ora che Haftar è indifendibile ma anche al Serraj è delegittimato”, dicono gli uomini del “Capitano”. Quelli vicini a Di Maio, invece, riferiscono dei racconti desolati fatti da Elisabetta Trenta, al ritorno da uno dei suoi ultimi viaggi in Libia, a inizio 2019: “Maitig? E' uno che – dicono – nelle riunioni si metteva a parlare in italiano col nostro ministro della Difesa per non far capire nulla ai leader degli altri clan, che però reagivano insultandolo in arabo”. Eccola, dunque, la credibilità che il nuovo “uomo forte” avrebbe con le varie fazioni libiche.

    Salvini smania, esonda dagli argini del suo ruolo. E Di Maio? “Luigi lascia che sia Conte a tenere il punto”, dicono i grillini di governo, confessando, per la prima volta con tanta insofferenza, che “nelle questioni diplomatiche la mancanza di peso specifico, di caratura internazionale, del nostro premier, si fa sentire”. Dovrebbe allora intervenire il ministro degli Esteri, che però il 12 aprile, sei giorni dopo l'arrivo di Haftar alle porte di Tripoli, s'è visto definitivamente screditato dal suo vice leghista, Guglielmo Picchi, che via Twitter – via Twitter – lo esortava all'azione: “Una visita del nostro ministro sul campo per incontrare Haftar potrebbe essere decisiva per fermare l'escalation militare”. A tarda sera, Guido Crosetto, uno che la questione libica la segue da tempo, scuote la testa: “E' la schizofrenia al governo, che mi spaventa”, dice l'ex deputato di FdI. “Ora chiediamo il sostegno di Trump, dopo averne ignorato gli altolà sull'affaire cinese. Poi ci rivolgiamo alla Turchia, a cui abbiamo appena fatto uno sgarbo riconoscendo il genocidio armeno. Dopodiché speriamo in un aiuto dell'Egitto, mentre al Senato, in queste ore, si dà il via libera alla commissione d'inchiesta su Giulio Regeni con toni vagamente scomposti. E chissà cosa ci aspetta domani”, si chiede. E la domanda risuona quasi come un preavviso di sciagura.

    Valerio Valentini