Identikit del pretesto

Valerio Valentini

    Roma. Con l'aria un po' stizzita di chi non gradisce le pignolerie, il ministro leghista, poco prima di avviarsi verso “il Cdm dei lunghi coltelli” – quello a cui lo stato maggiore del M5s deciderà di arrivare in netto ritardo – dice che “un pretesto è sempre pretestuoso”. Tautologica laconicità, per dire di come non sia opportuno star lì a sottilizzare, sulla questione del “salva Roma”. “E invece è stucchevole questa narrativa di Matteo Salvini”, sbuffa Francesco Silvestri, colonnello grillino nella Capitale. “L'unico salva Roma lo ha votato proprio la Lega nel 2008, quando aprì la gestione commissariale. Noi cerchiamo adesso di superare quella fase, facendo semmai risparmiare qualcosa alle casse dello stato”. E in effetti è proprio l'insofferenza con cui i leghisti accettano di entrare nel merito della questione tanto dibattuta a dimostrare quanto risulti comunque complicato, provocare l'incidente.

    Perché, ormai è evidente, a sperare in un repentino precipitare degli eventi, ad auspicare la crisi di governo, tra i vertici della Lega sono in tanti. “Così andare avanti è impossibile”, continua a ripetere Giancarlo Giorgetti; e come lui se ne sono convinti tutti i fedelissimi del capo, da Raffaele Volpi a Nicola Molteni, fino a Lorenzo Fontana e Gian Marco Centinaio. Tutti compatti nello sforzo di convincere Salvini a mandare all'aria questa alleanza balorda col M5s: e quello che invece esita, tentenna, esibisce un coraggio tutto scenografico ma poi rifiuta di rovesciare il tavolo, temendo le insidie del Quirinale, la nascita di un governo tecnico che lo releghi nell'irrilevanza. E così rigetta con risolutezza i consigli di chi gli dice che “o la va o la spacca”, che bisogna pur rischiare, e soprattutto farlo in fretta, prima che arrivi il tempo infelice della prossima, dolorosa, legge di Bilancio.

    Ed è in questo tentativo di forzare la mano al loro capo, che alcuni nella Lega si sono aggrappati al cavillo del “salva Roma”: una misura tutto sommato ragionevole, che i tecnici del Mef avevano imbastito da tempo e che Laura Castelli ha deciso d'intestarsi. “Permetterà allo stato di rinegoziare meglio il debito della Capitale: risparmio per tutti, altroché un favore alla Raggi”, va rassicurando la viceministro grillina. E in effetti, “il paradosso è che a gravare sulle casse dello stato – osserva Luigi Marattin, del Pd – sarebbe semmai la messa in pratica della controproposta di Salvini: pagare cioè i debiti di tutti i comuni e le città metropolitane in dissesto. Economicamente, una follia”. Lo sanno anche i leghisti che seguono il dossier. E però anche loro fanno spallucce, sperano che Salvini mantenga la linea della fermezza fino in fondo: “Non lo votiamo e provochiamoli”. C'è stato perfino chi, nel Carroccio, giorni fa ha suggerito al segretario un'imboscata ancora più perfida: “Disertiamo il Cdm di martedì. Vedrai che un fallo di reazione arriverà, qualcuno dei loro la sparerà grossa e avremo la scusa per aprire la crisi”. La stessa arma, cioè, che alla fine ha minacciato di usare proprio Luigi Di Maio, che ha inizialmente disertato il vertice di ieri sera a Palazzo Chigi (“per lanciare – dicono i suoi – un segnale a Salvini: su Siri noi non arretriamo”) salvo poi arrivare in netto ritardo.

    E però, anche dopo questo smacco, Salvini di rompere pare non ne voglia sapere. Rimanda sine die il momento dello scontro finale, indugia nel fantasticare su un pretesto più convincente. E allora pensa all'autonomia, come possibile pietra d'inciampo. “Sarebbe perfetto – lo incalzano i maggiorenti veneti e lombardi del partito – anche per ricompattare la nostra base al nord, sempre più disorientata”. E però come giustificare una rottura sull'autonomia di Milano e Venezia di fronte agli elettori del centro e del sud? Come evitare che l'inevitabile richiamo al federalismo delle origini demolisca il sogno salviniano di una Lega nazionalista?

    E la Tav? Quella sì che potrebbe essere la scusa perfetta, se non fosse che difficilmente si potrà far deflagrare il tema prima di fine agosto, quando verranno assegnati i capitolati di spesa per i lavori del tunnel: troppo tardi per sperare in un voto anticipato tra settembre e ottobre, che è l'ultima – e già di per sé improbabile – finestra utile per il 2019.

    Ci sarebbe la giustizia, certo: e del resto non passa giorno senza che Giulia Bongiorno non sfoghi il suo malcontento per le fregole manettare degli alleati a cinque stelle, invocando la resa dei conti. E però Salvini ha già spiegato che no, rompere sul garantismo proprio no: “Significherebbe – riferisce chi ci ha parlato – consegnare a Di Maio un tema perfetto per la campagna elettorale. Torneremmo a essere quelli dei 49 milioni, rischieremmo di passare come gli amici dei corrotti”. Stesso motivo, in fondo, per cui alla fine, pronosticano in parecchi nel Carroccio, anche Siri potrebbe finire sacrificato sull'altare del governo gialloverde. Ma neppure questo sarebbe un buon pretesto per rompere.

    Valerio Valentini