Rigenerare la democrazia
Algeri. La novità è il capannello, indizio di democrazia in embrione e primordiale nucleo di una società civile in via di ricostruzione. I gruppi si formano lungo la via Didouche Mourad, che prende il nome da uno dei combattenti della guerra d'indipendenza algerina, fondatore del partito che ha fatto la nazione e ancora oggi guida il paese, il Fronte di liberazione nazionale. Il boulevard alla francese è da dieci settimane cuore delle manifestazioni che scuotono l'Algeria e che hanno portato alle dimissioni dell'anziano presidente Abdelaziz Bouteflika, di un primo ministro, del presidente del Consiglio costituzionale, e all'arresto o al fermo di figure centrali di un antico sistema clientelare.
Tra i tavolini dei caffè e le bancarelle che vendono bandiere, cappellini, spille e gadget vari con i colori della nazione – bianco, rosso e verde – si fermano giovani e anziani, uomini e donne, si raggruppano e improvvisano discussioni. Solitamente al centro del capannello c'è un arringatore, che innesca il dibattito e provoca le reazioni di passanti, di curiosi che assaporano la nuova ritrovata libertà di discutere di politica lungo il marciapiede. E' giovedì sera, mancano meno di 24 ore alla nona manifestazione del venerdì, quella del 19 aprile, e lungo il viale si sono formati almeno tre gruppi: si parla animatamente di federalismo, dell'amministrazione comunale, degli identitarismi – arabo e berbero –, si alza la voce e si litiga, a tratti. E va bene così perché soltanto due mesi fa non sarebbero stati possibili né la discussione, né il dibattito, né il litigio, né il raggruppamento in un luogo così pubblico e così normale.
Ad Algeri dal 22 febbraio si manifesta ogni venerdì, giorno di devozione nell'islam, e di riposo. Il centro città si riempie fin dalle prime ore del mattino, e anche se l'inizio ufficiale della protesta sarebbe il termine della preghiera, la piazza della Grande Poste, nel suo stile neo moresco, i boulevard del centro lungo i quali sorgono eleganti palazzi bianchi alla francese, con i loro balconi in ferro battuto, la rotatoria della piazza Audin si riempiono già dalle prime ore del mattino. Più che una manifestazione contro un regime autoritario, quella del venerdì ad Algeri sembra un festival popolare, una fiera cittadina, nella quale si mescolano rivendicazioni sociali e politiche con la gioia della consapevolezza di aver già ottenuto una vittoria: essersi riappropriati dello spazio pubblico negato alla cittadinanza da decenni di burocrazia e divieti di manifestazione e raggruppamento.
Il regime, benché decapitato, è ancora solido nelle sue ramificazioni. Per questo la piazza continua a riempirsi, e il movimento – hirak in arabo – continua a chiedere l'uscita di scena di altre figure simbolo del sistema. I potenti militari, alla testa dei quali siede il generale Ahmed Gaid Salah, mirano a traghettare il paese verso elezioni che, come vorrebbe la Costituzione, dovrebbero tenersi il 4 luglio. I manifestanti invece chiedono tempo. Ora che si sono rimpossessati dei luoghi, vogliono sfruttare il tempo dato loro a disposizione dalla forza dei numeri e lo spazio garantito loro dalla finora pacifica protesta settimanale per rafforzare una società civile piegata da anni di limitazioni e censure di regime, in cui i partiti politici sono stati svuotati di senso e rappresentanza.
Dal suo studio scuro, poco lontano da quei capannelli, Mostefa Bouchachi ci racconta d'aver difeso proprio pochi mesi fa alcune persone arrestate dalla polizia per aver parlato di politica per strada. L'avvocato, che dal 2007 al 2012 è stato a capo della Lega algerina per la difesa dei diritti umani, ex deputato dimissionario in opposizione al regime, è diventato a 65 anni una specie di portavoce per la giovanissima piazza. I suoi detrattori lo accusano di aver difeso anche clienti islamisti negli anni bui della guerra civile. “Ho difeso tutte le vittime di abusi dei diritti umani – dice lui – Non sono selettivo quando un essere umano è vittima di una violazione di stato. Nella memoria collettiva ho sempre militato”. Ed è per questo, secondo lui, e per essersi dimesso un anno e nove mesi dopo essere stato eletto deputato nel 2012, denunciando le macchinazioni di un Parlamento non rappresentativo, che la piazza ora lo guarda come uno dei possibili garanti di una transizione. Per “un popolo cui è stato vietato per anni di parlare in pubblico, di riunirsi – le marce ad Algeri sarebbero vietate –, tutto quello che accade in questi giorni rivoluzionari è assolutamente inedito”. Le amministrazioni non davano autorizzazioni per conferenze, ci racconta Bouchachi, che quando era presidente della Lega per la difesa dei diritti umani non poteva organizzare seminari in un albergo senza prima avere ottenuto carte e documenti. “Sono sorpreso oggi dalle attività degli studenti, dei giovani, dei miei figli all'università. Non hanno mai parlato di politica, ora nelle loro riunioni discutono di Costituzione, di elezioni, di diritto. E' accaduto tutto in due mesi, ma una maturità politica era già emersa dal voto del 2014, dal rifiuto di un quarto mandato del presidente Bouteflika. Il regime non l'ha vista arrivare, e dopo la minaccia delle rivolte arabe del 2011 ha cercato soltanto di corrompere la società con alloggi pagati, con soldi”.
Quella maturità politica cerca spazio. Giardini a terrazza, scalinate in pietra, fontane, alberi antichi, fiori e voliere sono lo scenario scelto da un piccolo gruppo di cittadini e attivisti per affrontare il tema della settimana, rispondendo a due domande: “Come preservare le libertà acquisite finora attraverso la protesta?”, “Come essere utili in quanto cittadini e restare attivi politicamente tra una manifestazione e l'altra?”. Ci sono poco più di una trentina di persone sedute in cerchio sulle panchine del Parc de la Liberté, ex Parc de Galland (dall'indipendenza del 1962 dalla Francia, nella topografia di Algeri c'è sempre un ex, un prima e un dopo). Dal 22 febbraio, si discute nelle aule universitarie, nelle sedi di associazioni e organizzazioni, ma soprattutto si è riscoperto il piacere di discutere in spazi pubblici all'aperto. Il sabato, dopo la grande manifestazione del venerdì, si organizzano dibattiti nei parchi cittadini, il Parc Sofia, il Parc Beyrouth e, in questo caso, il Parc de Galland, dove l'incontro è organizzato da un centro studi cittadino, Nabni. Interviene chi vuole. I passanti si fermano incuriositi, qualcuno si siede. Un giovane sostiene come ci sia la necessità di trovare figure capaci di insegnare al movimento la politica, il diritto. “Va bene sbarazzarsi del sistema, ma dopo che cosa facciamo?”, si chiede. Dibattito.
Ad assistere alla discussione c'è anche un gruppo di giovani studenti della facoltà di Ingegneria della capitale. Ci raccontano come gli universitari, che manifestano oltre al venerdì anche ogni martedì, stiano lavorando a un'organizzazione interna del loro movimento. Ogni facoltà ha eletto un coordinatore, delegati di gruppo e di sezione. Ogni gruppo elabora proposte che vanno dalla pedagogia alla politica, e le discute assieme ad altri studenti di facoltà diverse. Nella loro università, dove dall'inizio delle manifestazioni i corsi sono sospesi e invece delle lezioni si organizzano conferenze e incontri con ospiti sulla politica, la società, il diritto, il futuro, sono stati selezionati quattro coordinatori esterni, con il compito di prendere contatto con altri atenei ed estendere la discussione a livello nazionale, per presentare quando la transizione arriverà una proposta comune.
Algeri in queste settimane è un proliferare di atti di disobbedienza civile – con funzionari pubblici e magistrati che rifiutano di compilare le liste elettorali e sovrintendere al processo elettorale –, di incontri, discussioni, dibattiti laddove prima, ci dice Emir Barkane, attivista ambientalista di vecchia data, c'era “il deserto politico”. E' giovedì, mancano poche ore alla manifestazione del nono venerdì di protesta, e lui sta per tenere una conferenza: “L'Algeria è pronta a un partito ecologista?”. Sul palco improvvisato in un piccolo appartamento del centro di Algeri, intanto, la costituzionalista Fatiha Benabou parla della necessità di mettere al centro il concetto di cittadinanza, in opposizione a quello di identità: religiosa, araba, berbera. Soltanto poche settimane fa, fuori dalla porta ci sarebbe stata la polizia a controllare ogni entrata e uscita.
“Il movimento” non è nato dal nulla: è frutto di anni di lotte nell'ombra, di un associazionismo indebolito dal controllo del regime, di piccole proteste e sit-in repressi nella violenza (come quelli dei medici specializzandi nel 2018), dice chi oggi vede nella transizione un'opportunità per ricostruire la società civile, ed evitare scenari post 2011. Gli egiziani e i tunisini, sostengono molti nuovi e vecchi attivisti, dopo la caduta dei rispettivi dittatori sono corsi troppo velocemente o verso elezioni o verso una costituente. “L'obiettivo non è mandare via delle persone, ma cambiare il sistema in tutti i campi: oggi non ci sono sindacati indipendenti, le donne non hanno diritti, occorre costruire una società civile. Non vogliamo le elezioni del 4 luglio perché sarebbe una transizione proposta dal potere. Abbiamo tempo, e approfittiamo ora di questo tempo per organizzarci”, dice Sonia Mahoui, insegnante di francese, 25 anni. E' seduta nei locali di un gruppo studentesco di sinistra, RAJ, Rassemblement Actions Jeunesse, nel pieno centro di una Algeri che si prepara di lì a poche ore a una manifestazione di milioni di persone. Assieme ad altri ragazzi, seduti attorno a un lungo tavolo, in uno stanzone da militanza politica anni Settanta, scrive e colora manifesti per la protesta. La incontriamo qualche ora dopo nel corteo, il velo rosso che contrasta con il giallo della bandiera berbera, nella quale si è avvolta: “Per un'Algeria laica, democratica, sociale e plurale”, ha scritto su un cartello. “Sappiamo quello che vogliamo e ci prendiamo il tempo di organizzarci – ci dice – Il movimento non ha una leadership, ma avrà rappresentanti in tempo per la transizione. Il sistema ha decostruito tutta la società civile, noi faremo il contrario, la ricostruiremo”. L'ottimismo della ragazza non è condiviso da Sid Ahmed Ghozali, 82 anni, ex primo ministro tra il 1991 e il 1992, ex ministro dell'Energia ed ex amministratore delegato di Sonatrach, compagnia di stato per gli idrocarburi. Non ha mai ricevuto dal regime l'autorizzazione del partito da lui creato nel 2000. “Il regime – dice – è troppo forte e la società troppo poco strutturata e indebolita”. E a proposito delle manifestazioni, che reputa eccezionali: “Ho conosciuto il potere, recupera tutto”. Seduto nell'antica casa di famiglia sulle alture di Algeri, la sua previsione è che il sistema cadrà soltanto quando lo stato non avrà più soldi: “Non occorre un economista per capire che questo è quello che accadrà”. “In Algeria viviamo in una ricchezza che non abbiamo creato noi, ma la natura: il petrolio. Non produciamo nulla perché non esiste una politica che sfrutti la creatività”. L'ex premier racconta di aver da poco ricevuto una lettera: un invito della presidenza, rifiutato da lui e da gran parte della classe politica algerina, per discutere dell'istanza che organizzerà le elezioni (la riunione era prevista sabato scorso). Lo stesso ha fatto Zoubida Assoul, avvocato, militante, presidentessa del partito Union pour le changement et le progrès, dirigente del gruppo Mowatana – cittadinanza, in arabo –, tra i primi movimenti a scendere in piazza contro un quinto mandato già nel 2018. Nel suo ufficio spoglio spiega il perché del rifiuto: “Non vogliamo elezioni. Il potere vuole ora seguire la Costituzione quando è lui che non l'ha mai rispettata”. Quello che lei vorrebbe sono dai 12 ai 18 mesi di transizione, “a cui partecipi tutta la classe politica per una concertazione seria con la società civile che si sta organizzando”. Da settimane circolano diversi nomi di personalità che potrebbero soddisfare “il movimento” nella gestione di un simile periodo di transizione, figure considerate indipendenti e non conniventi con il regime: il politico d'opposizione Karim Tabou, del Fronte delle forze socialiste, l'ex premier Ahmed Benbitour, l'ex presidente Liamine Zeroual, l'ex primo ministro Mouloud Hamrouche, l'ex ministro Ahmed Taleb Ibrahimi, l'anziana ex combattente simbolo della liberazione Djamila Bouhired, la stessa Zoubida Assoul e lo stesso avvocato Bouchachi, che per quanto riguarda la road map del futuro immediato spiega come, comunque vada, non debba esserci “esclusione”. “Non dobbiamo farci prendere dalla psicosi dell'esclusione. Non vogliamo svuotare le amministrazioni: occorre sbarazzarsi dei simboli del sistema, ma non dei quadri dell'amministrazione, perché ne abbiamo bisogno”. Intanto, dopo le dimissioni del presidente del Consiglio costituzionale Tayeb Belaiz, sembra in corso l'èra delle purghe interne per sgonfiare la piazza: nel giro di una settimana sono stati spiccati mandati di arresto per due alti generali, per gli uomini d'affari più influenti del paese, Issad Rebrab e i fratelli Kouninef, è stato licenziato l'amministratore delegato della Sonatrach, Ould Kaddour, eliminata l'immunità parlamentare al senatore Djamel Ould Abbès. Il movimento, però, la cui parola d'ordine è “Yetnahau gaa” – devono andarsene tutti – chiede come base di qualsiasi inizio di discussione l'uscita di scena del leader del Senato e presidente ad interim Abdelkader Bensalah, e del premier Noureddine Bedoui, considerati figure portanti del regime. E oggi torna in piazza. Nel decimo venerdì di protesta nazionale.
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