E poi cosa vuol fare il governo con Alitalia?

Alberto Brambilla

    C' è l'idea che rimandare ogni decisione critica a dopo le elezioni europee sia di per sé una soluzione, che il 29 maggio sia una data taumaturgica dopo la quale tutto si potrà risolvere con facilità. Questa convinzione alberga nell'esecutivo Lega-M5s, ma non ha senso in particolare in merito al soccorso di Alitalia. A due anni dal commissariamento della ex compagnia di bandiera, dopo mesi di trattative, l'esecutivo non è ancora arrivato a trovare una compagine azionaria adatta a rilevarla. A dieci anni dalla privatizzazione del 2008 la convinzione è che lo stato tornerà padrone attraverso una partecipazione delle Ferrovie dello stato e del ministero dell'Economia, mentre ancora mancano azionisti “privati”. Il governo vorrebbe imbarcare i concessionari autostradali Atlantia e il Gruppo Toto. E' possibile una proroga per la presentazione delle offerte, alla fine di giugno, per consentire ai Benetton di prendere una decisione: è solo per questa ragione che si parla di superamento della data delle elezioni europee, uno spartiacque che però con Alitalia non ha nulla a che fare. (L'unica funzione rappresentata dal rinnovo del Parlamento europeo – se la si vuol trovare – è quella di rimandare i declassamenti delle agenzie di rating che attendono di valutare sviluppi negli equilibri politici italiani). Dopodiché è possibile dire di vedere una strategia per una ristrutturazione definitiva di Alitalia? Nei precedenti salvataggi – finiti male – c'erano delle finalità strategiche o quanto meno delle intenzioni di rilancio attraverso alcune direttrici. Nel caso della Compagnia aerea italiana (Cai) l'idea era quella di navigare insieme a Air France-Klm per poi consentire alla compagnia franco-olandese di unirsi ad Alitalia per creare un campione continentale. Si potrà obiettare che l'innesco del salvataggio, o almeno il pretesto politico, quello della salvaguardia del vettore nazionale, della bandiera e del tricolore, fosse tradito in partenza: obiettivo del Piano Fenice era appunto quello di integrare il vettore italiano con quello francese, con quale quota azionaria – di maggioranza relativa a favore degli italiani ? – non lo possiamo sapere. Al di là della tattica politica la strategia era quella di permettere ad Alitalia di non volare più sola e di unirsi a un vettore europeo. Fallito quello schema, dopo il disimpegno di alcuni capitani coraggiosi, durante il governo Letta è stata la terza compagnia del Golfo, Etihad ad avere manifestato interesse per Alitalia diventandone azionista. Anche in questo caso, il vettore di Abu Dhabi aveva una strategia. La strategia degli emiratini – benché poi rivelatasi perdente – era quella di creare una rete di periclitanti compagnie aeree, come Air Serbia e Air Berlin, per creare un network europeo e mondiale. I manager di Etihad, in gran parte con una esperienza decennale nel settore, avevano ambizioni esagerate. Tuttavia, ancora una volta, per quanto discutibile e in effetti errata, si vedeva un disegno dettato, in quel caso, dall'azionista estero. Il disegno, sia con Cai sia con Etihad, in fondo, era sempre quello di fare di Alitalia uno dei quattro poli della aviazione europea insieme a Lufthansa, AirFrance-Klm, British Airways-Iberia. C'è la stessa intenzione al momento? Probabilmente no se sono le “sinergie” con Ferrovie dello stato a essere il perno della prossima Alitalia. Non solo perché di “sinergie” se ne sono sempre trovate e, lungi dall'essere operative, sono invero il pretesto per usare una partecipata pubblica come finanziatore del carrozzone. Quando Poste entrò come investitore di ancoraggio per Etihad si parlò della sua flotta Mistral Air quale giustificazione per l'ingresso del gruppo postale. Se con “sinergie” tra Fs e Alitalia s'intende lo sviluppo del turismo nazionale, si possono trovare anche senza mettere 300 milioni o più per avere dei treni con le ali, ma con accordi bilaterali. Per ora l'unica “strategia” che si vede è quella di rimandare. Lo stato ha già speso 900 milioni di euro che non restituirà ai contribuenti – la data per la restituzione con interessi è stata prorogata sine die –, e questo ha come sbocco possibile quello di sollevare obiezioni da parte della direzione generale per la Concorrenza della Commissione europea per palese aiuto di stato. La tattica quella di comprare tempo con denaro pubblico rischia perciò di essere controproducente e di creare problemi in futuro, con sanzioni, alla nuova Alitalia se mai ci sarà in qualche forma ora difficile da decifrare. La prospettiva migliore era quella offerta dalla tedesca Lufthansa – che è stata respinta perché chiedeva sia tagli al personale sia di non avere come socio (ingombrante) lo stato. La compagnia tedesca ha però integrato nel suo network Austrian e Swiss che hanno mantenuto il loro brand e la loro autonomia assicurando un certo livello di servizio nei rispettivi paesi facendo parte di un gruppo mondiale. Forse non si capisce che una strategia “stand alone” per Alitalia significa un suicidio certo della compagnia e dei soldi dei contribuenti. Da inizio 2018 Alitalia ha perso oltre 700 milioni di euro, una iniezione di pari ammontare da parte dello stato servirebbe solo a coprire le perdite, non certo a garantire un rilancio come promesso dal governo Lega-M5s. Senza contare che la “compagnia di bandiera” ormai non è nemmeno più padrona a casa sua: la quota di passeggeri internazionali (da e per l'Italia) è poco superiore all'8 per cento, meno di tutti i principali concorrenti, le low-cost Easyjet e Ryanair, e Lufthansa o British-Iberia. Se la tattica di mantenere Alitalia in sospeso fino alle elezioni europee è quella di rimandare ed evitare quantomeno un conflitto con i sindacati dei lavoratori sembra fallita anch'essa. E' infatti previsto uno sciopero del trasporto aereo il 21 maggio, una settimana prima delle elezioni, da parte dei sindacati di categoria. Il governo Lega-M5s aveva evitato finora di ventilare a tagli del personale, come chiesto da Lufthansa, per evitare conflitti. Tuttavia l'attendismo, come si vede, ha prodotto lo stesso risultato senza però arrivare ad alcuna soluzione.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.