Perché imprese e università parlano poco
L a difficoltà delle imprese a trovare lavoratori con competenze adatte alle proprie esigenze sta diventando un problema internazionale con l'avanzare dell'introduzione di nuove tecnologie nei processi produttivi. Secondo la ricerca “Talent Shortage” (tradotto: carenza di talenti) di Manpower, un'agenzia per il lavoro multinazionale con base negli Stati Uniti, il 45 per cento delle aziende in 43 paesi soffre questo problema sia per un divario nelle competenze curriculari, titoli di studio, o di esperienza lavorativa (hard skill) sia per una mancanza di attitudini personali e competenze complementari che normalmente non stanno nei curriculum formativi dei corsi di studio come quelle digitali richieste dall'azienda (soft skill).
“Per questo è sempre più necessario – dice Stefano Scabbio, regional president Southern Europe di Manpower – riqualificare e aggiornare le competenze per mantenersi competitivi, anche perché è arduo pensare di rallentare la velocità del progresso tecnologico e della globalizzazione. Possiamo e dobbiamo agire immediatamente per individuare quelle competenze che devono essere sviluppate e rimodellate (upskilling e reskilling), in modo da disporre di lavoratori preparati per il futuro”.
In Italia le indagini indagini Excelsior sui fabbisogni professionali per l'occupabilità hanno evidenziato negli anni come le imprese facciano molta fatica oggi a trovare candidati con competenze digitali. “Oltretutto – e questo è il tema più critico – le difficoltà nel reperire i candidati dipendono non solo da una insufficiente offerta quantitativa, ma anche da non adeguati livelli di preparazione, riconducibili anche a carenze del sistema formativo”, dice l'ultimo rapporto in cui si cerca di tracciare le esigenze per le imprese relative alla formazione per i prossimi cinque anni, al 2023.
Secondo il rapporto Excelsior elaborato insieme a Unioncamere, la trasformazione digitale e l'economia della sostenibilità ambientale “avranno un peso determinante nel caratterizzare i fabbisogni occupazionali dei diversi settori economici, arrivando a coinvolgere circa il 30 per cento dei lavoratori di cui imprese e Pubblica amministrazione avranno bisogno nei prossimi cinque anni”. La stima è che aziende private e Pa cercheranno tra circa 270 mila e circa 300 mila lavoratori con specifiche competenze matematiche e informatiche, digitali o connesse a Industria 4.0, ovvero per gestire processi industriali che ricorrono essenzialmente all'automazione. Il rapporto nota quali sono le figure professionali emergenti maggiormente richieste sul mercato: gli esperti nell'analisi dei dati, nella sicurezza informatica, nell'intelligenza artificiale e nell'analisi di mercato. Le necessità che richiederanno le aziende non riguardano solamente chi entra nel mercato del lavoro ma anche chi è già assunto e deve formarsi per restare aggiornato: “Le nuove tecnologie digitali non interesseranno solo la expansion demand con la creazione delle nuove professioni emergenti, ma riguarderanno l'intera replacement demand con il cambiamento delle competenze richieste ai nuovi entrati nelle professioni esistenti”. Ormai a oltre 9 profili professionali su 10 è appunto associata la richiesta di competenze digitali.
Il percorso formativo, anche universitario, riesce a colmare questo divario nell'ambito dei corsi programmati? Silvia Ciucciovino, prorettore dell'Università Roma Tre con delega per i rapporti con il mondo del lavoro, dice che è necessario modificare la formazione dei futuri laureati in modo da adattarsi alle esigenze evidenziate dalle imprese e alle evoluzioni della tecnologia ma è problematico a causa di resistenze del sistema universitario e della burocrazia ministeriale, oltre che per via di un problema di “linguaggi” diversi usati da università e imprese. “La formazione universitaria difficilmente riuscirà a stare al passo con la domanda di competenze espressa da un sistema produttivo in continua e rapida evoluzione ed è questa– dice – che va integrata con corsi extracurricolari per, appunto, completare il portfolio di competenze dei giovani in uscita dai sistemi formativi, specialmente con competenze digitali, altre competenze trasversali e soft skill, lasciando agli studenti la libertà di scegliere quali competenze migliorare e fare questo con l'aiuto delle imprese che devono venire a insegnarci quello di cui hanno bisogno”. Il problema, dice Ciucciovino, è che i curriculum formativi dei corsi di laurea sono basati su moduli “rigidissimi” dovuti a schemi ministeriali che, oltretutto, richiedono molto tempo, anche anni, per essere modificati. “L'offerta formativa deve essere prevista e modificata con largo anticipo ma per ragioni burocratiche entra a regime soltanto a uno o due anni di distanza da quando viene programmata: è una risposta molto ritardata e questo è il motivo della difficoltà che incontrano i sistemi formativi per stare dietro alle richieste delle aziende”. All'Università Roma Tre il prorettore Ciuccovino sta cercando anche di introdurre un sistema di “curriculum trasparente”, ovvero una anagrafe dei laureati – che al momento non esiste – alla quale le aziende possono attingere per trovare informazioni sugli studenti e capire sia le competenze curricolari sia quelle extracurricolari conseguite. Sarebbe un'operazione di trasparenza in quanto in Italia l'evidenza empirica mostra che le offerte di lavoro rimangano ‘nascoste' a chi non possiede un buon network personale o amicale, e perciò non necessariamente i più meritevoli trovano un lavoro adeguato alle loro competenze. C'è infine un problema di “comunicazione”. Le nuove professioni emergenti saranno quelle del Data Scientist, Big Data Analyst, Cloud Computing Expert, Cyber Security Expert, Business Intelligence Analyst, Social Media Marketing Manager, Artificial Intelligence Systems Engineer. Le codificazioni per gli sbocchi professionali indicate nei corsi di laurea sono però ferme al 2011, e non comprendono le nuove professioni. “Sono antiquate, non parlano il linguaggio delle imprese e non dicono quale è il lavoro che si andrà a fare – conclude Ciucciovino – non è banale questo disallineamento del linguaggio parlato dalle università e dalle aziende. Serve allinearsi nella comunicazione altrimenti avremo un sistema formativo che resterà autoreferenziale”.
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