Questi due fratelli irlandesi sono seduti su una montagna di soldi e hanno fondato una startup antipopulista

Eugenio Cau

    Ci sono alcune aziende digitali che costituiscono in maniera evidente i pilastri portanti di internet. Nell'ambito dei servizi, per esempio, è facile dire che senza Amazon, Facebook o Google internet non sarebbe la stessa cosa. Per usare il linguaggio dei programmatori, queste sono le aziende di frontend, quelle con cui l'utente ha a che fare tutti i giorni. Uno dei segreti più interessanti di internet è che esiste una seconda categoria di aziende, non meno importante per il buon funzionamento dei servizi online, che tuttavia nessuno conosce. Sono le aziende di backend, quelle che stanno dietro le quinte, che muovono meccanismi spesso essenziali ma rimangono quiete, sconosciute al grande pubblico. Per esempio: conoscete Twilio? Quasi nessuno sa di che azienda si tratta, ma quando ordinate una pizza tramite Deliveroo e ricevete un messaggino di conferma sullo smartphone, quel messaggino è stato gestito da Twilio. Di compagnie così ce ne sono moltissime, e alcune apprezzano il proprio ruolo nascosto: meno esposizione significa meno fastidi, non tutti sono preparati ad affrontare i rompicapi di pubbliche relazioni di un Facebook. Altre invece cercano di uscire dall'ombra, si dimenano, vogliono entrare nel grande dibattito su tecnologia e futuro.

    Tra questi ultimi c'è Stripe. E' un altro nome che probabilmente soltanto gli addetti ai lavori conoscono. Stripe gestisce i pagamenti online di infinite aziende di ecommerce e non solo. Spiegata in modo semplice: quando comprate un aspirapolvere su Amazon, la transazione dalla vostra carta di credito verso Amazon viene probabilmente processata da Stripe. E' un servizio complesso, che richiede una certa perizia tecnica specie quando si parla di sicurezza, rapporti con banche in tutto il mondo, protocolli antiriciclaggio, e per questo molte aziende preferiscono affidarsi a un fornitore specifico. Quasi sempre il fornitore è Stripe.

    L'azienda, fondata 7 anni fa a San Francisco, è un gigante. Ha circa 1.500 dipendenti e una valutazione di mercato di 22,5 miliardi di dollari. Se si guardano i portafogli di investimento delle principali società americane di venture capital, Stripe è sempre ai primi posti. E' il quarto maggiore investimento di Tiger Global Management, dietro a Uber, Juul e Airbnb. Il terzo di Sequoia Capital, dietro a Uber e Airbnb. Stessa posizione in Kleiner Perkins. E' il secondo investimento di DST Global dietro ad Airbnb. Il secondo di Andreessen Horowitz, ancora dietro ad Airbnb. Insomma, avete capito qual è il campo da gioco di Stripe: l'empireo delle più grandi società non quotate del mondo (anche se Uber si è quotata di recente), e non è un caso che tutte le volte che si comincia a parlare della quotazione di Stripe in Borsa, gli addetti ai lavori vanno in fibrillazione. Ma appunto: gli addetti ai lavori.

    Entrano in scena Patrick e John Collison, rispettivamente classe 1988 e classe 1990. I due fratelli sono i fondatori di Stripe ed evidentemente non amano il loro ruolo di operatori dietro le quinte. La loro storia sembra fatta apposta per stuzzicare la fantasia dei giornalisti che si occupano di mitopoietica siliconvalleyana. I due sono nati in Irlanda, a Moyross, una zona della città di Limerick celebre per la violenza di strada più che per l'eccellenza imprenditoriale. Frequentano le scuole locali ma sono uno più geniale dell'altro, e finiscono al Mit (Patrick) e a Harvard (John). Presto però abbandonano l'università e cominciano una vita da startuppari tra l'Irlanda e la Silicon Valley, fino a che – così narra la leggenda agiografica – non sviluppano l'idea geniale per Stripe, che come tutte le idee geniali della Silicon Valley è semplice e perfetta: sette righe di codice, e sette soltanto, che qualunque sito internet può inserire per avere a disposizione un sistema di pagamento. Stripe pensa a tutto il resto.

    Con quelle sette righe di codice, i Collison costruiscono un impero e nel 2016 sono miliardari. Stripe si espande in decine di paesi compresa l'Italia, dove è attivo da qualche mese, e sviluppa programmi interessanti come Atlas, che consente a qualunque startup in giro per il mondo di costituire la propria azienda negli Stati Uniti e di aprire un conto in banca americano con prezzi bassi e poca burocrazia. Ma è piuttosto evidente che a Stripe va stretta la sua posizione dietro le quinte. Sembra che ai Collison non basti l'aver creato un'azienda che è usata da Amazon e da Facebook, loro vogliono essere allo stesso livello, vogliono essere discussi e far discutere.

    Ora, come fa un'azienda digitale a entrare nel cuore dell'opinione pubblica? Può lanciare prodotti che solleticano l'immaginazione, ma quelli di Stripe, per quanto utili, sono esoterici per i comuni mortali. Può cercare attenzione dalla stampa, ed effettivamente i Collison qualche mese fa erano sulla copertina di Wired Uk. Ma i due fratelli irlandesi, forse a causa delle loro ascendenze europee, hanno fatto qualcosa di impensabile per un'azienda di San Francisco: schierarsi politicamente. Per la Silicon Valley, questo è il tabù più grande. Facebook trema alla sola idea di essere accusato di bias politico; la stragrande maggioranza dei dipendenti di Google negli Stati Uniti vota Partito democratico, ma l'azienda finanzia largamente anche la politica repubblicana, non si sa mai.

    I Collison invece sono piuttosto espliciti, anche se non fanno nomi. Per esempio, hanno fondato in seno a Stripe una casa editrice, che non pubblica titoli di viaggio ma saggi come “The revolt of the public” di Martin Gurri, che racconta la crisi dell'autorevolezza della politica e l'insurrezione populista che mette in pericolo le democrazie d'occidente. Oppure “Stubborn Attachments” di Tyler Cowen, un professore della George Mason University che invoca una società dove la prosperità genera libertà. Il motto della casa editrice Stripe Press è “ideas for progress”. (Nota per gli amanti del genere: i libri sono bellissimi, rilegati in maniera lussuosa, con carta spessa e ruvida al punto giusto).

    Stripe è anche editore di una rivista molto patinata sul business, che si chiama Increment e che è stata diretta da Susan Fowler, che divenne famosa per aver scoperchiato i casi di molestie sessuali dentro a Uber (la Fowler l'anno scorso è stata assunta dal New York Times). Inoltre l'azienda ha acquistato Indie Hackers, una comunità online di imprenditori che raccontano le loro storie di successo.

    Ma una decisione in particolare dei fratelli Collison ha trasformato la loro azienda nella “startup antipopulista”: qualche mese fa hanno presentato un documento che si intitola “Global Natives” e che è un'ode documentata alla globalizzazione, all'apertura dei confini, contro le politiche che vogliono costruire muri tra i paesi. Il ragionamento alla base del paper è piuttosto lineare: Stripe è una compagnia globale che per prosperare ha bisogno che l'infrastruttura globale funzioni. Per creare un sistema di pagamenti a livello mondo, c'è bisogno che i protocolli siano ben rodati. E se i commerci mondiali si fermano, un servizio che vuole gestire i pagamenti dei suddetti commerci è nei guai.

    La differenza sta nel modo molto politico in cui Stripe ha presentato il suo report, come fosse un think tank (se fai la casa editrice, perché non fare anche il think tank?), e sfiorando infinite volte i temi dell'antipopulismo. L'account Twitter di Patrick Collison, il fratello grande, è molto diverso dagli account tradizionali dei founder siliconvalleyani, ed è pieno di tweet politici, che affrontano il problema dell'edilizia popolare a San Francisco e della copertura sanitaria per gli americani.

    E' uno stile di vita alternativo e avventuroso per un'azienda che si occupa di pagamenti e che opera in un ambito che spesso è considerato noioso. Forse la ragione sono davvero le origini europee dei fratelli Collison, giovani e seduti su una montagna di soldi, che hanno capito presto che il business è anche una questione politica.

    Eugenio Cau

    • Eugenio Cau
    • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.