Cosa cambia tra un minuto trascorso sui social media e un minuto nella vita reale? assolutamente niente

    Cento e più anni dopo Nathan Jurgenson, sociologo, ricercatore, consulente di Snapchat, fondatore della rivista Real Life e molto altro, ha costruito la sua visione sulle spalle di chi l'ha preceduto.

    Anziché ripartire da zero e cercare di inventare una ruota di forma diversa, magari quadrata, ha studiato la lezione (dopotutto è il suo lavoro di sociologo) e l'ha declinata nel mondo dei social. Il suo ultimo libro, “The Social Photo”. sottotitolo: “On Photography and Social Media” (ed. Verso), non è un manifesto come scrivono di solito i consulenti della Silicon Valley, quanto un viaggio molto colto e articolato nella teoria sociale che sedimenta da più di un secolo.

    Suona anche molto ragionevole: “Mi ha colpito – ha spiegato al Foglio Innovazione –  anche il fatto che la fotografia sia un buon punto di vista per comprendere i social media in generale. Quando la fotografia è arrivata per la prima volta a metà del XIX secolo, si trattava di una tecnologia che permetteva nuovi modi per documentare se stessi e il mondo. Il che è un cambiamento piuttosto simile a quello che i social media stanno provocando nel nostro tempo. Allo stesso modo, molti dei dibattiti di allora – che cos'è vero? la fotocamera interrompe l'esperienza autentica? – sono simili ai dibattiti che abbiamo ora. Mettere le nostre preoccupazioni in questo contesto può aiutarci a raffreddare gli animi sia degli ottimisti sia dei pessimisti, due categorie che la tecnologia sembra produrre in modo fin troppo abbondante”.

    Jurgenson è colto, ha studiato bene e mette insieme le fila del discorso pop e quello più scientificamente fondato: da Jaron Lanier a Platone, per intenderci. Come altri post-intellettuali della nostra epoca (intendendo per “post” che vanno oltre la distinzione dogmatica tra “digitale” e “reale”), ha coniato un nuovo peccato mortale per l'uomo moderno: adagiarsi nel “dualismo digitale”: “Non sono d'accordo sul fatto che ci sia un mondo digitale e un mondo reale, o che essere lontani dallo schermo sia ‘vita reale'. Primo: il mondo è virtuale e mediato dalla tecnologia anche lontano dallo schermo. La digitalità è un tipo di informazione, come testo o voce, e gli schermi sono solo una tecnologia, come strade o vestiti, e non esiste un'esperienza fuori dalla tecnologia e dalle informazioni. Secondo: ciò che accade sullo schermo è sempre reale, è sempre incarnato e materiale, anche se alcuni dei primi tecnologi hanno tentato di vendere l'idea del “cyberspazio” disconnesso dal disordine del reale. Anche quella era una finzione e qualcosa penso che sempre più persone oggi lo capiscano”.

    Come tutti i post-intellettuali non digital-dualisti, anche Jurgenson si eccita quando trova una prospettiva che giudica appagante per guardare il mondo: “Quando ciò che accade sullo schermo è incarnato e reale e quando ciò che accade fuori dallo schermo è mediato e virtuale, quelle sono le intersezioni più eccitanti se si tratta di pensare al ruolo dei social media nel mondo di oggi. Il progetto ‘Social Photo' nasce da questa comprensione, che le telecamere sociali si trovano in un punto di contatto molto intenso tra il corpo e lo schermo, il vissuto e il mediato. I nostri occhi vedono attraverso la logica dell'immagine e delle piattaforme, la tecnologia non è un freddo insieme di circuiti ma riposa nella nostra coscienza”.

    Real Life, la rivista di Jurgenson con sponsor unico Snapchat (cioè Snap, azienda social che però ha un punto di partenza diverso dalle altre sorelle come Instagram, definendosi una “Camera Company” e definendo i suoi prodotti come “strumenti per dare la capacità alle persone di esprimere se stesse, vivere nel momento, imparare qualcosa del mondo divertendosi assieme”) riguarda l'esperienza vissuta della tecnologia. Il nome stesso è un riferimento all'idea che non c'è motivo di pensare che quel che accade sullo schermo non sia reale. Mentre i giornalisti che scrivono di tecnologia si concentrano sui gadget e sulle aziende, Real Life si concentra “sui processi sociali, dall'identità alla memoria, dai giochi alla sorveglianza e alle altre cose come queste”. Per Jurgenson l'obiettivo è lo stesso del suo libro: “Mostrare che la teoria sociale è uno strumento utile per pensare ai social media. Ci sono decenni di letteratura che parlano esattamente delle stesse domande sulle quali ci stiamo interrogando oggi. Spero che sempre più pensatori contemporanei possano elaborare le loro idee in teorie usando un pensiero esistente in modo sistematico”.

    Non aiutano le risposte fuorvianti ai problemi sociali, basate su un'idea (inesistente) di una vita analogica “normale” contrapposta al delirio digitale nel quale stiamo affogando: “Vengono proposti trucchi per fare ‘detox', disintossicarsi dal digitale. E' troppo facile pensare che sia una soluzione che risolve davvero un problema: pensare che quando ci si fa un selfie si sia solo in posa, che ci siano persone senza un sé reale, che si viaggi per scattare una immagine e non per ‘vivere una esperienza', che le notizie sono tutte bugie. Tutte queste sono preoccupazioni molto più vecchie di Mark Zuckerberg. Pensare di risolverle cambiando telefonino non ha senso. I veri problemi sono il fatto che i costruttori di dispositivi, i progettisti di piattaforme e i creatori di contenuti sono tutti incentivati ​​economicamente a massimizzare la raccolta di attenzione e impegno delle persone in modi che sono individualmente e socialmente dannosi. E' bene essere consapevoli di come dispositivi, piattaforme e contenuti stanno cercando di spingerci a comportarci in determinati modi, e di respingere tutto questo. Pensare che la risposta però sia spegnere un telefono non è un modo per risolvere i problemi più profondi”.

    Ovviamente Jurgenson alla fine ha una sua idea di cosa sia un selfie: “Se la fotografia sociale vuol dire parlare per immagini, vedo i selfie come se parlassero con la nostra voce individuale”. Ma ovviamente non finisce qui, perché la realtà è complessa per sua natura: “Il termine ‘selfie' è più usato di quanto non dovrebbe, trasformando la pratica in una banale tendenza, qualcosa di cui le persone dovrebbero essere preoccupate o eccitate. Invece penso sia ora di smettere di usare il termine selfie, perché il semplice fatto che il tuo volto è nella tua immagine non è così straordinario o importante. Sono meno interessato ai selfie e più alla domanda ‘Perché la presenza di un volto richiede un'attenzione così speciale?'”.

    E poi conclude, quasi con modestia: “So di non aver aperto nuovi orizzonti con queste risposte, ma l'implicazione di vedere il digitale come reale è che i problemi sono reali, nel modo frustrante e complesso con cui lo sono i problemi sociali fuori dallo schermo. La grande, ampia risposta ‘è brutto, basta disconnettere' è come cercare di risolvere i problemi sociali ponendo fine alla società; è troppo semplice, troppo simile alle correzioni molto semplici praticate nel mondo tecnologico”.

    Antonio Dini