Disastro, poi rimpasto
Roma. Con quel ghigno un po' sardonico che ha assunto da quando non ha più incarichi di governo, Edoardo Rixi la liquida con apparente leggerezza, la questione del rimpasto. “Aspetteremo che ci sarà una sommossa di popolo”, sorride l'ex viceministro dei Trasporti, tornato a essere un deputato semplice. “Aspetteremo che le masse di lavoratori, di fronte alla paralisi, assaltino il palazzo del Mise. E a quel punto, siccome la filosofia politica del nostro alleato di governo ci impone di assecondare la volontà del popolo, non potremo fare altro che trarne le conseguenze”. Provocazione semiseria, che però rivela in parte il motivo per cui Matteo Salvini stia ritardando così tanto la rogna del rimpasto. Che il leader della Lega vuole, evidentemente, anche perché i suoi ministri – ogni volta che lui li interpella sul tema – gli recitano un cahier de doléances che lievita di settimana in settimana.
“E' probabile che in questa attesa ci sia del tatticismo politico”, spiega Michele Dell'Orco, che di Rixi è stato a lungo collega al Mit, prima di restare l'unico sottosegretario a Porta Pia, privato anche della compagnia di Armando Siri. “E' insostenibile”, sbuffa. “Tra qualche giorno investiremo della responsabilità di trovare una soluzione lo stesso Giuseppe Conte. Avere un solo sottosegretario, in un ministero così complesso come quello dei Trasporti, significa minare l'operatività dell'intera macchina dell'esecutivo”.
Tutte cose che Salvini sa bene, ma che guarda sotto la luce distorta della propaganda, per cui rivendicare incarichi di governo passa sempre come un'operazione di Palazzo, un cercare poltrone e prebende.
“A me ne basta uno, di ministro”, dice il capo del Carroccio, riferendosi al titolare degli Affari europei di cui sente di avere estremo bisogno per tentare di uscire dall'irrilevanza politica a cui il suo partito si è autocondannato a Bruxelles. “Per il resto, chiedete ai 5 stelle”.
E insomma, prima di dare il via libera al rimpasto, il ministro dell'Interno attenderà che maturino i disastri delle politiche economiche e industriali del M5s. Perché a quel punto, una presa di responsabilità della Lega apparirebbe non come un assalto alle cadreghe, ma come un intervento fatto per riparare i danni causati dai grillini. “Se ci escludono dalla riunioni che fanno, come possiamo far valere le nostre posizioni?”, si chiede Dario Galli, viceministro dello Sviluppo, che lo spaesamento di Luigi Di Maio tra Ilva e Alitalia quasi se lo gusta come un preludio di rivalsa. “Vediamo se lui, insieme alla sua squadra, da qui al 15 luglio saprà estrarre il coniglio dal cilindro, su Alitalia. Altrimenti si assumerà la responsabilità del fallimento”. La Lega aveva suggerito il coinvolgimento di EasyJet, per rilanciare la compagnia aerea; il M5s ha preferito virare verso Atlantia, il cui contributo viene considerato indispensabile anche dall'americana Delta. E oltre alla holding dei Benetton, con cui nel frattempo si è rinnovata la battaglia scriteriata sulle concessioni autostradali anche a colpi di video tarocchi sul ponte Morandi, Di Maio continua a trattare anche con Toto. “Ma sia chiaro – precisa Galli, leghista di lunga esperienza – che non bisogna solo appianare il debito. Alitalia è un'azienda che perde un milione al giorno, per cui chiunque decida di rilevarla deve preoccuparsi anche di come rilanciarla e portarla in attivo. Altrimenti è la solita soluzione all'italiana sulle spalle dei contribuenti. E in quel caso, meglio sarebbe decidersi a metterla sul mercato, rinunciando all'ennesimo intervento statale”.
Tutto insomma viene lasciato nelle mani di Di Maio e del suo ristretto staff di amici d'infanzia assurti d'incanto agli onori e agli oneri degli incarichi ministeriali, e che nei mesi si sono guadagnati dagli stessi parlamentari Cinque stelle la stima che effettivamente meritano. Lo dimostra, ad esempio, l'ironia disperata con cui alcuni senatori grillini si mostrano l'un l'altro i post pubblicati dallo staff del M5s sull'ultima trovata del vicepremier: quella di bandire dalle scuole la Coca-Cola. “Mettiamo un bel distributore di spremuta d'arancia nei corridoi delle scuole”, ha detto Di Maio, prima che alcuni dei suoi, con contatti e relazioni negli stabilimenti italiani della bevanda, si premurassero di spiegargli che non era proprio un bel segnale, da parte del ministro dello Sviluppo economico, darsi al boicottaggio istituzionale. E a quel punto, d'incanto, la crociata salutista del vicepremier è stata corretta, e gli strali via Facebook sono stati mandati alle “bevande zuccherine”, provocando l'ulteriore desolazione degli eletti.
Tuttavia, la questione che più allarma lo stato maggiore leghista, è quella dell'Ilva. “Quello di Taranto – dice Galli – è lo stabilimento più grande d'Europa. Farlo chiudere sarebbe una figuraccia di livello internazionale, un pessimo segnale per gli investitori”. Eppure, anche in quel caso, la Lega ha comunque votato a favore dell'articolo del “decreto Crescita” che rimuoveva di fatto l'immunità penale per i reati ambientali ai danni del nuovo gestore. “Non si può litigare su tutto. Su alcune sciocchezze del M5s ci tocca andare a rimorchio. Ma così rischiamo di dare a ArcelorMittal l'alibi perfetto per andarsene da Taranto”, prosegue il viceministro leghista allo Sviluppo economico. “E sarebbe – conclude – una tragedia per la città e per il paese”. Ma chissà che non sia la tragedia auspicata, da Salvini, per potere finalmente chiedere il rimpasto. Con l'aria non del governante ingordo di poltrone, ma del salvatore della patria.
Valerio Valentini
Il Foglio sportivo - in corpore sano