“Loveless”, un film spietato e controintuitivo che racconta la Russia di Putin
Chi l'ha detto che il modo migliore per raccontare (e far comprendere) la realtà è la piatta esposizione dei fatti? Chi pensa che semplicità sia sinonimo di verità e schiettezza non ha evidentemente aperto un quotidiano negli ultimi quindici anni: articoli che – la stragrande maggioranza delle volte – affrontano il reale come uno scolaretto delle elementari affronta il tema “Il mio papà è il mio eroe”, cioè appigliandosi a qualsiasi dettaglio lontanamente plausibile della vita dell'eroico genitore pur di mettere in fila una ventina di pensierini blandi, tenuti insieme da un profondo senso d'inadeguatezza impastato a quel che resta della propria dignità. Ma se la semplicità, non dobbiamo dimenticarlo, è l'anticamera della semplificazione, in nome della semplificazione una barca con a bordo 42 poveri cristi diventa la testa di ponte di una tremenda invasione.
Da tempo lamento la progressiva scomparsa del linguaggio allegorico nella cultura occidentale. Ormai a parlare una lingua laterale e a ragionare in modo controintuitivo siamo rimasti noi omosessuali irredenti e qualche attempato sacerdote: due categorie che in un ideale diagramma di Venn presentano non pochi punti di sovrapposizione. Ma uscendo dall'Italia è possibile imbattersi in tracce ancora vive e pulsanti di allegoria, soprattutto nell'arte prodotta in realtà particolarmente difficili, nelle quai gli autori fanno fatica a esprimersi senza inevitabili (e sfavillanti) giri di parole. E' un dato che emerge anche in un articolo di Owen Gleiberman, il critico cinematografico di “Variety” che, recensendo nel 2017 “Loveless” del russo Andrej Zvjagincev, scriveva così: “Ci sono sempre state società oppressive che limitano il cinema, lasciando al contempo quel minimo spazio di manovra necessario a un artista scafato – e poetico – per dire quel che pensa. E' un discorso che vale per la Cecoslovacchia comunista degli anni Settanta come per l'Iran degli ultimi trent'anni. E vale anche per la Russia di Putin. Il regista Andrej Zvjagincev non può esporsi denunciando, in modo chiaro e inequivocabile, la corruzione della società in cui vive, ma può fare un film come ‘Leviathan', nel quale registrava la temperie spirituale della classe media russa, perduta tra alcol e tradimenti vari. E può farne uno come ‘Loveless', che getta uno sguardo spietato e risonante non tanto alla politica russa, quanto alla mancanza di empatia che caratterizza la società”.
La Russia di Putin non è certo un paese pienamente democratico. Eppure, grazie alla forza dell'allegoria, Zvjagincev è riuscito per anni a farsi sostenere finanziariamente dallo stato per realizzare i suoi film. La magia si è spezzata all'indomani del successo internazionale di “Leviathan” (anch'esso finanziato al 35 per cento da Madre Russia, attraverso il ministero della Cultura), nel quale il regista ha fatto trapelare più del solito il suo attacco alla bancarotta morale della sua nazione. A nulla sono valse le parole del produttore del film, Alexander Rodnyansky: “Il film affronta alcune delle principali tematiche sociali della Russia contemporanea, ma non è la predica di un artista né una sua pubblica dichiarazione. E' una storia d'amore e tragedia, vissuta da gente comune”. Nonostante “Leviathan” abbia ottenuto (anche in patria) un unanime consenso critico, questa pellicola ha segnato la fine dell'idillio tra l'apparato putiniano e Andrej Zvjagincev. Per il successivo “Loveless”, infatti, il regista è dovuto ricorrere a una coproduzione russo-franco-belga: stavolta non un rublo è arrivato dalle casse dello stato. Forse per allontanarsi dalla netta accusa alla corruzione presente in “Leviathan”, forse per rientrare – a modo suo – nelle grazie del ministero della Cultura, Zvjagincev ha preferito rialzare l'asticella dell'allegoria e ha confezionato un film spietato, in cui una devastante storia famigliare riesce a rappresentare alla perfezione l'ascesa e il crollo del culto di Putin e l'onda di entusiasmo (presto deluso) che contagiò i cittadini russi. Zenja e Boris sono una coppia al capolinea. Entrambi convivono in un appartamento che ormai è l'unica cosa che li lega: nemmeno Alëša, il loro figlio dodicenne, riesce più a tenerli uniti. Anzi, il ragazzino è spettatore del disfacimento della sua famiglia e anche oggetto di tremende violenze verbali da parte dei suoi genitori. I due hanno già dei nuovi compagni e non vedono l'ora di disfarsi di questo benedetto appartamento per inaugurare una nuova vita: guardano al futuro pieni di speranza e vorrebbero cancellare le ultime ingombranti tracce del loro deteriorato legame affettivo. E le ultime tracce sono la casa e Alëša. La casa prima o poi sarà venduta, ma Alëša non ha più voglia di subire in silenzio. Un giorno, il ragazzino sparisce senza lasciar traccia.
In un film americano, la scomparsa del figlio avrebbe spinto i due a riavvicinarsi, ma nel mondo di Zvjagincev non c'è spazio per la melassa. La sparizione di Alëša è quasi una liberazione, poiché permette a Ženja e Boris di vivere liberamente le loro nuove vite, mentre le indagini della polizia procedono pigramente e senza svolte significative. Alëša diventa quindi la personificazione di questo “spirito russo” sul quale Zvjagincev riflette, così come fa un po' in tutta la sua cinematografia, uno spirito rinnegato e abbandonato per fare spazio a un non meglio definito “nuovo” che promette di bruciare i ponti col passato e invece non fa altro che avvitarsi su se stesso ricacciando tutti nel gorgo da cui pensavano di essere sfuggiti. Emblematica la scena in cui, chiamati dalle autorità a riconoscere un cadavere che corrisponde alla descrizione di Alëša, Ženja e Boris esplodono a piangere, nonostante lei ribadisca che non si tratta di loro figlio. Lo spirito della nazione è scomparso e al suo posto ha lasciato qualcosa di morto che gli somiglia a malapena. La promessa del nuovo è vuota, senza speranza. La vita dei due ex coniugi continua, ma nella piena consapevolezza che la fatica fatta per lasciarsi tutto alle spalle non è servita a nulla.
Dubito che potreste trovare una quadro più netto e dettagliato della realtà, della Russia contemporanea, del nostro mondo negli articoli di qualsiasi quotidiano italiano.
Costantino della Gherardesca
Il Foglio sportivo - in corpore sano