Erano inventati gli scandali di Mps cavalcati da Grillo e Salvini

Alberto Brambilla

    Roma. Dopo anni di indagini giudiziarie arrivate a sentenza sugli “scandali” al Monte dei Paschi di Siena emerge quello che ha sempre sostenuto il Foglio: non c'era nessun grande scandalo nella banca più antica del mondo – “creste”, “contratti occulti”, “maxi-tangenti” – c'erano semmai grave incompetenza manageriale e arretratezza. Martedì la “banda del 5 per cento”, pietra angolare di tutta la vicenda, è stata assolta in primo grado dal tribunale di Siena. Dopo un'indagine durata circa cinque anni, tra intercettazioni e rogatorie, non è stata dimostrata la fondatezza dell'accusa di associazione a delinquere per il responsabile dell'area finanza della banca, Gianluca Baldassarri, e una serie di funzionari addetti a operazioni finanziarie con la società di intermediazione Enigma. Operazioni dalle quali avrebbero tratto profitti illeciti (la “cresta” del 5 per cento). Per l'accusa la cricca avrebbe lavorato per concludere affari per conto del Monte attraverso Enigma a condizioni diverse da quelle di mercato per ottenere un profitto maggiore per l'intermediario poi girato ai funzionari della banca. Dopo le indagini, nate da un esposto anonimo, l'accusa si è dimostrata infondata e – in attesa delle motivazioni della sentenza e della valutazione di eventuali lacune nell'inchiesta – è emerso che i rapporti tra Mps ed Enigma erano già stati analizzati da Consob e Banca d'Italia nel 2012 senza rilevare anomalie nei prezzi negoziati per le operazioni oggetto di contestazioni. Insomma, la “banda” non è mai esistita. E' un altro colpo alle inchieste che nel 2013, a pochi mesi dalle elezioni, portarono alle dimissioni di Giuseppe Mussari, dominus di Mps, dall'Associazione bancaria italiana, e che motivarono il circo mediatico attorno alla banca vicina al Partito democratico. Mussari, il direttore generale Antonio Vigni e Baldassarri sono già stati assolti in Cassazione perché non c'era l'ostacolo all'autorità di vigilanza, ovvero non c'è mai stato l'“occultamento” del contratto per la ristrutturazione del derivato Alexandria, stipulato con la banca giapponese Nomura. Così anche la seconda “pietra” dello scandalo si è sgretolata. Il “masso” riguardava una presunta maxi-tangente per l'acquisto di banca Antonventa da parte di Mps dalla banca spagnola Santander che l'aveva da poco acquistata dall'olandese Abn Amro nel 2007. La tangente non è mai stata trovata semmai Antonveneta era un boccone troppo grande per una banca provinciale. Mps ha sborsato più di quanto poteva permettersi, oltre 9 miliardi di euro: 5 miliardi al Santander per la banca padovana più un prestito di almeno 5 miliardi con interessi chiesto allo stesso Santander per pagare ad Abn Amro una linea di credito che la banca olandese aveva aperto per garantire liquidità ad Antonveneta prima di liberarsene. Il problema di Mps è la gestione clientelare per cui i crediti deteriorati, che si sono concentrati soprattutto prima del 2012, hanno raggiunto negli anni un'incidenza sugli impieghi doppia rispetto alla media degli istituti bancari nazionali. Una banca, appunto, gestita secondo logiche redistributive opposte a una gestione prudente in quanto dipendente dagli indirizzi della Fondazione che governava l'istituto. Il risultato degli “scandali” è stato molteplice. Ha probabilmente motivato l'errore strategico più serio: dopo l'emersione della vicenda derivati lo stato non poteva mostrare benevolenza e, nel 2013, il governo Monti ha sottoscritto 4 miliardi di “Monti-bond” con interessi crescenti superiori al 9 per cento che hanno mandato in sofferenza la banca per ripagarli. Lo stato avrebbe potuto usarli per ricapitalizzare Mps e diventare azionista, come poi accaduto quattro anni dopo. L'altro risultato dei titoli di giornale strillati è stato riempire le piazze grilline. Piazze sulle quali ha capitalizzato consenso anche la Lega, che oggi amministra Siena, e su cui è maturata la carriera politica di Claudio Borghi, presidente della Commissione bilancio della Camera, teorico dei minibot e dell'Italexit. Così il populismo bancario ha prosperato su scandali inesistenti.

    Alberto Brambilla

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.