Pechino è stufa di proteste e manda avanti i picchiatori a Hong Kong

Giulia Pompili

    Roma. La battaglia urbana che si è consumata durante la notte tra domenica e lunedì potrebbe essere il punto di svolta delle proteste di Hong Kong, che vanno ormai avanti da più di tre mesi. Dopo aver dichiarato “morto” l'emendamento sull'estradizione in Cina, la chief executive dell'ex colonia inglese Carrie Lam è stata costretta ieri ancora una volta a giustificarsi davanti alle telecamere, condannando la violenza ma senza mai aprire a possibile dimissioni dell'esecutivo. Il governo centrale cinese ha definito la manifestazione di ieri una “sfida palese all'autorità di Pechino” e dalla capitale già da qualche settimana arrivavano voci di un possibile intervento più duro sulle proteste – soprattutto per scavalcare la Lam, considerata troppo poco efficace. Domenica sera è successo qualcosa che potrebbe dimostrare questo passaggio, dalla “pazienza strategica” di Pechino all'intervento.

    I video che circolavano già domenica sera sui social network mostravano scene di violenza cieca a Hong Kong, durante le fasi finali della settima manifestazione contro l'estradizione in Cina e pro-democrazia. Mentre alcuni dei manifestanti tornavano a casa, gruppi di picchiatori in maglietta bianca – evidentemente per distinguersi dai manifestanti pro-democratici che vestono di nero – armati di bastoni e caschi si sono infiltrati tra la folla e poi, arrivati alla stazione di Yuen Long, hanno attaccato senza fare distinzioni sia i manifestanti sia i pendolari in una spedizione punitiva che si è protratta per almeno un'ora. Nel frattempo, a una trentina di chilometri a sud, davanti all'ufficio di rappresentanza del governo di Pechino, una parte del corteo che durante la giornata aveva marciato pacificamente si è staccata e ha usato bombolette spray contro i muri del palazzo, provocando una pioggia di lacrimogeni da parte della polizia. E' così che ieri le autorità di Hong Kong hanno giustificato il ritardo nell'intervento alla stazione della metropolitana, dove nel frattempo 45 persone venivano portate in ospedale: stavano gestendo una situazione critica da un'altra parte. Il Global Times, il quotidiano filo-governativo e nazionalista di Pechino, ieri scriveva che i manifestanti di Hong Kong hanno “superato il limite” attaccando l'ufficio di rappresentanza del governo centrale e “meritano di essere puniti”. In un altro editoriale, senza mai menzionare i fatti di Yuen Long, si legge che la polizia non prende decisioni politiche, ma “l'opinione pubblica occidentale che sostiene gli estremisti ha fatto enormi pressioni sulle forze dell'ordine”. Per capire che qualcosa non quadra, però, basta guardare le immagini. In un video circolato ieri online si vede il parlamentare pro-Pechino Junius Ho stringere le mani e ringraziare per il “duro lavoro” i gruppi di picchiatori in bianco. Ieri l'ufficio di Ho è stato vandalizzato.

    In un comunicato congiunto, 24 parlamentari democratici di Hong Kong hanno denunciato la “collusione” della polizia con i gruppi di picchiatori, dimostrata dal fatto che nessuno ha fatto niente per fermarli. Nel comunicato si parla esplicitamente delle triadi, l'organizzazione mafiosa radicata a Hong Kong, assoldate per creare il caos e spaccare l'opinione pubblica honkonghese, che fino a oggi sosteneva i manifestanti pro-democrazia. Non sarebbe la prima volta che succede: già nel 2014 durante la Rivolta degli Ombrelli alcuni “attori non governativi” erano stati assoldati per fare il lavoro sporco sui manifestanti. “Il governo cinese usa teppisti e squadracce quando deve portare avanti azioni illegali oppure impopolari”, scrive in un saggio pubblicato lo scorso anno sulla rivista Made in China Lynette Hong, docente di Scienze politiche a Toronto, “più che altro sono usate per usare illegittimamente la forza o la violenza sui cittadini”. Una pratica sconveniente per i governi locali, che dopo l'intervento dei picchiatori non sanno più come mantenere la stabilità sociale. Il caos di Hong Kong, probabilmente ispirato se non agevolato dai falchi di Pechino, segna un cambio di passo nella gestione delle manifestazioni e soprattutto ha una prima conseguenza: l'hub finanziario e più occidentale della Cina comincia ad avere problemi di ordine pubblico, e anche se la legge sull'estradizione è per ora sospesa, varie compagnie pensano di spostarsi verso Singapore perché la struttura del “un paese, due sistemi” che garantiva l'autonomia di Hong Kong è ormai definitivamente compromessa.

    Giulia Pompili

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.