Il gran bluff dell'autonomia

Testo svuotato, faide interne, tradimento del nord. Come e perché Salvini ha reso possibile il sabotaggio grillino della riforma più importante per la Lega

Valerio Valentini

    Roma. Il paradosso sta nel fatto che la via più agevole che avrebbe Matteo Salvini per vincere le resistenze grilline è l'unica via che il leader del Carroccio sa non di poter percorrere. Perché se in fondo ammettesse, come pure il suo vicesegretario Andrea Crippa riconosce, che “questa autonomia, a furia di correzioni e aggiustamenti, è ben poca cosa rispetto alle intenzioni iniziali”, forse il ministro dell'Interno smentirebbe d'incanto, sì, gli strepiti a Cinque stelle sulla “secessione dei ricchi” e lo “spacca-Italia”, ma al tempo stesso aizzerebbe l'ira delle regioni del nord, la Lombardia e soprattutto il Veneto, e un po' meno l'Emilia-Romagna, che nel sogno di una vera autonomia ci hanno creduto davvero, e ora invece si ritrovano a doversi accontentare, se pure, di un qualcosa di assai più modesto.

    E non che i soldi siano tutto, in questa partita. Ma di certo, come è inevitabile, sono la cosa più importante. Luca Zaia, che su questa sfida dell'autonomia ha deciso di giocarsi la faccia e la carriera, aveva voluto sognare in grande: “Otterremo tutte le ventitré materie, e tratterremo i nove decimi delle tasse sul territorio”, ha ripetuto per mesi il governatore del Veneto che nell'ottobre del 2017 aveva saputo portare oltre metà degli elettori della sua regione – 2,3 milioni, sui quattro totali – a votare in massa al referendum per l'autonomia. In realtà, il proposito di Zaia, che avrebbe fatto del suo Veneto un'entità a statuto speciale al pari, o quasi, del Trentino-Alto Adige e del Friuli-Venezia Giulia che lo circondano, è stato ben presto ridimensionato dalle estenuanti e confuse trattative governative. Il trasferimento delle ventitré materie, previsto dalla Costituzione, avverrà sulla base della spesa storica: lo stato, cioè, corrisponderà alla regione la stessa cifra che spendeva per finanziarie quel certo servizio di cui ora si occuperà il governo locale. Il tutto, ovviamente, col solito italico impegno bipartisan ad arrivare entro cinque anni alla definizione dei costi standard, stabilendo cioè la somma che, in ciascun territorio del paese, quel certo servizio dovrebbe costare. Processo che, senz'altro, avrebbe premiato le amministrazioni virtuose, in grado di evitare sprechi e inefficienze; ma che, al contempo, appariva assai indefinito. A tal punto indefinito che Massimo Garavaglia, viceministro dell'Economia lumbàrd, nel febbraio scorso aveva anche introdotto una clausola di salvaguardia nella bozza iniziale del testo: prevedeva che, trascorsi i tre anni dall'introduzione dell'autonomia, “qualora non siano stati adottati i fabbisogni, l'ammontare di risorse (...) non potrà essere inferiore al valore medio nazionale pro capite della spesa statale per l'esercizio delle stesse”. Il che, ovviamente, avrebbe comportato un vantaggio – quello sì – enorme per le Lombardia, Veneto ed Emilia, a discapito delle regioni del sud.

    Ma rimosso di netto, su volere di Palazzo Chigi, quel passaggio, ecco che d'incanto tutte le garanzie per le regioni autonomiste, sul piano finanziario, sono franate. Una slavina che in questi giorni, dopo l'incontro tra i tecnici del Tesoro e quelli del ministro per gli Affari regionali Erika Stefani, potrebbe perfino travolgere quel che resta della sostanza vera dell'autonomia. In discussione, infatti, c'è innanzitutto la questione dei trasferimenti: come dare, cioè, alle regioni, i soldi necessari per adempiere alle nuove funzioni? La Stefani aveva pensato a un sistema basato sui decimi di compartecipazione all'Irpef, che avrebbe permesso a Veneto, Lombardia, ed Emilia semplicemente di trattenere sul territorio una parte delle tasse locali. Il Tesoro, dapprima d'accordo su questa impostazione che avrebbe evitato complicate partite di giro, negli ultimi giorni sembra invece essersi indirizzato verso l'approccio preferito dal M5s: e cioè che tutto debba passare dalle casse dello stato centrale, che riceve il totale dei tributi locali e poi restituisce ai territori la cifra necessaria. E tuttavia la questione in ballo più spinosa è un'altra, ed ha a che fare coi saldi di spesa. Proviamo a semplificare. Se il Veneto ottiene cento per finanziarie la “sua” nuova funzione e riesce a spendere ottanta, risparmiando dunque venti rispetto a quanto faceva finora lo stato, cosa ne sarà di quel risparmio? Secondo la Lega, quel “di più” dovrebbe restare nelle casse della regione: un po' perché, almeno, così s'incentiva l'efficientamento della spesa, e un po' perché quel “di più” andrebbe poi a compensare eventuali ammanchi in anni di vacche magre. Per il M5s, invece, i risparmi delle regioni autonomiste virtuose dovrebbe tornare allo stato, andando a finanziare un non meglio definito fondo perequativo a sostegno del Meridione. Il che, evidentemente, sarebbe la morte del concetto stesso di autonomia, con tanti saluti alle illusioni di Zaia.

    Il quale, peraltro, con le sue pretenziose promesse non ha soltanto illuso i suoi corregionali; ma – oltre il danno, la beffa – ha anche innescato, come riflesso pavloviano, gli alti lai di mezz'Italia, e del M5s, con l'inevitabile corredo di accorati appelli e petizioni contro la “secessione”, campagne giornalistiche e convegni universitari, quasi tutti improntati al consueto piagnisteo meridionalista, non di rado colorato anche delle inevitabili venature di nostalgia tardoborbonica. Un terreno straordinariamente fertile per le rivendicazioni di Luigi Di Maio che, fingendo d'ignorare che in Veneto e in Lombardia il suo M5s ha sostenuto e sostiene tutt'ora la causa autonomista, ha avviato un efficace lavoro di logoramento e di ostruzionismo, favorito del resto anche dall'atteggiamento piuttosto remissivo di Salvini, che a regalare al collega vicepremier la possibilità di fare campagna elettorale sul rischio sventato della rottura dell'unità nazionale non ci pensa neppure. E del resto proprio su questa timidezza di Salvini che si misura l'aspirazione del ministro dell'Interno, pronto a tradire la vocazione federalista della Lega, e con questa le promesse fatte al nord, pur di accreditarsi come leader nazionalista.

    E allora ecco i continui lamenti di Barbara Lezzi, ministro per il Sud che ha preso così alla lettera il suo mandato governativo da finire odiata perfino dai suoi colleghi di partito da Roma in su, col Veneto – non a caso – in testa. Ecco la trafila dei dossier, delle veline messe in circolo, attraverso i giornali, nei momenti più travagliati delle trattative con la Lega: come il papello elaborato dal senatore grillino Vincenzo Presutto – commercialista campano in prima fila nell'opera di sabotaggio del progetto – diffuso la sera del 14 febbraio, a pochi minuti dall'inizio dall'avvio di un Cdm che sembrava decisivo: come del resto decine di altri, sul tema delle autonomie, e poi tutti immancabilmente derubricati a incontri interlocutori. E spesso, per di più, assai scenografici, con vertici – come quelli del 25 giugno e del 3 luglio – che dovevano essere ristretti ai soli Conte, Di Maio, Salvini e Stefani, e che invece si trasformavano in riunioni allargate, un caravanaserraglio di ministri, sottosegretari, capi di gabinetto ed esperti vari fatti accorrere a Palazzo Chigi e poi lasciati a fare anticamera, nell'attesa che, di volta in volta, arrivasse i loro turno di entrare in Sala Verde ed esporre il loro punto di vista. Nel mezzo, le strampalate pretese grilline di adottare, prima di avviare il percorso legislativo sull'autonomia, i Livelli essenziali di prestazione (Lep), che però sono difficili da individuare senza entrare nella logica dei costi standard; i litigi sulle fonti da utilizzare per parametrare i trasferimenti di spesa (la spesa statale regionalizzata, secondo la Stefani, i conti degli enti territoriali, secondo la Lezzi), l'inaugurazione di indagini conoscitive di sei mesi, come quella annunciata dalla grillina Carla Ruocco, sul federalismo fiscale. Senza contare, poi, che Conte sembrava prenderci gusto, a giocare il ruolo del temporeggiatore: e puntualmente rimandava, puntualmente postdatava, puntualmente arrivava in ritardo agli incontri, com'è accaduto il 25 luglio scorso: incontro con la Stefani e col ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli fissato alle 12:30, e il premier che arriva alle 13:45 sapendo che alle 14, causa Conferenza stato-regioni, si sarebbe dovuto sospendere il tavolo, per cui tutti nuovamente riconvocati ieri pomeriggio, per definire la devoluzione alle regioni delle competenze amministrative delle soprintendeze, e di nuovo venti minuti di ritardo.

    E nel frattempo, forse anche per la crescente condivisione di cautele e perplessità tra i tecnici del Tesoro – cui Giovanni Tria tende sempre più a demandare le rogne della partita autonomista – e la viceministro grillina Laura Castelli, tutto s'andava sempre più annacquando. E' così ad esempio sulla scuola, la questione più rilevante anche in termini finanziari, il M5s l'ha di fatto spuntata su Zaia, pur non gestendo il ministero di riferimento. Saltata la (strumentale) pretesa leghista di organizzare concorsi su scala locale trasformando gli insegnanti in dipendenti regionali, abolita la proposta di ottenere quantomeno un emolumento integrativo per incentivare i docenti a restare al nord, demolita anche l'idea di varare programmi scolastici ad hoc tarati sulle esigenze del tessuto industriale locale, a Zaia non resta che accontentarsi di potere estendere da cinque a sette anni il periodo minimo di permanenza obbligatoria dei nuovi insegnanti assunti in Veneto, prima che questi possano chiedere il trasferimento e cercare cattedre altrove. Quanto all'Ambiente, non se ne farà nulla della richiesta più sentita dalle regioni, quella di potere gestire in modo autonomo le Autorizzazioni di impatto ambientali (Via): potranno al massimo occuparsi con più libertà dello smaltimento dei rifiuti, ma senza potere procedere a una classificazione su scala regionale di quelli speciali. Perfino Danilo Toninelli, in una situazione del genere, ha potuto fare la voce grossa e di fatto respingere tutte le aspirazioni di Zaia e Attilio Fontana su concessioni autostradali e porti, ammettendo appena qualche delega amministrativa – poca roba – sulla gestione degli scali aeroportuali.

    Un'impalcatura ambiziosa, insomma, che pezzo a pezzo è stata smontata, mano a mano che si susseguivano gli inutili ultimatum leghisti (la prima “scadenza imprescindibile” fu, nientedimeno, che il 22 ottobre 2018). Il tutto, tra l'altro, con una ulteriore, enorme incognita: quella dell'intervento del Parlamento. Interpretando in modo molto restrittivo il dettato costituzionale, i presidenti delle Camere – molto convinto Roberto Fico, un po' più recalcitrante Elisabetta Casellati – hanno fatto capire che riconosceranno a deputati e senatori ampio margine d'intervento per correggere le intese siglate dal governo con le regioni. Il che prelude a garbugli bizantini, per cui Conte firmerà degli accordi con Zaia, Fontana e Bonaccini (li incontrerà non si ancora quando) che il Cdm dovrà licenziare, salvo però il fatto che poi questi testi potranno essere modificati da ogni singola commissione parlamentare competente, in un percorso lungo potenzialmente mesi, anni, al termine del quale l'intesa potrebbe perfino risultare stravolta. E a quel punto, che fare? Chiedere una nuova verifica ai governatori? E se questi dovessero respingere le correzioni? Nessuno ha la risposta. Neppure colui che in questo pasticcio è il più coinvolto di tutti, e cioè Zaia. Che, ai suoi amici che lo incalzano, continua a dire che di Salvini si fida; ma che in cuor suo, confessa chi lo conosce bene, ha già iniziato a immaginare exit strategy alternative, perché ha capito che è proprio il capo della Lega, al momento, a non volere forzare. Anche per lasciare, chissà, col cerino in mano, l'unico possibile suo sfidante interno alla guida della Lega, l'unico che, almeno in Veneto, ancora riesce a fargli ombra.