La Grecia vista dal Babilonia

    Q uando ho compiuto diciotto anni sono andata in Grecia.

    No, non è vero.

    Da quando ho compiuto diciotto anni, ho sempre immaginato di andare in Grecia. L'ho immaginato per tutte le estati della mia vita da ragazza, ma ci sono andata veramente soltanto lo scorso anno.

    Erano passati quasi vent'anni, e ancora non desideravo che quello.

    “Andiamo in Grecia”, dicevo alle mie amiche. Loro mi guardavano, sorridevano, poi ricominciavano a parlare di maschi, o di quanto erano stronze certe mamme delle altre.

    Io mi ripetevo, zitta zitta dentro le orecchie, quell'esortazione: andiamo in Grecia. Ilaria, vai in Grecia.

    “Voglio andare in Grecia”, dicevo ai miei genitori. Loro non mi rispondevano. Mio padre continuava a fumare, concentrato come se stesse compiendo un'operazione complessa. Mia madre, invece, continuava a guardare la tv. Solo dopo un po', come stimolata da quel silenzio, si voltava verso di me, mi puntava addosso il suo sguardo stanco, depresso, e mi diceva: oggi passa l'aspirapolvere su. Oppure: oggi passa l'aspirapolvere giù.

    E io passavo l'aspirapolvere su, o giù. E il giorno dopo ancora la passavo per le scale, dove era richiesta una tecnica specifica. Si trattava di muovere l'aspirapolvere da un margine all'altro di ogni gradino, piegarsi per terra, sul gradino sottostante e non sullo stesso che si stava pulendo e nemmeno su quello già pulito perché il rischio era di lasciare l'alone delle proprie impronte, poi mettersi a guardare controluce la pulizia del marmo, e se mai ci fossero stati ancora rimasugli di polvere, passare la pezza che tenevo in tasca come ultima spiaggia.

    Non so come ci riuscisse, ma mia madre, quando tornava a casa dal lavoro, alzava gli occhi verso i gradini più alti della scala e si accorgeva subito se avevo pulito bene. Poche volte ero stata brava, molto spesso capitava che lei si inginocchiasse su un gradino e chiedesse anche a me di farlo, e insieme, l'una accanto all'altra, guardavamo quella striscia di polvere rimasta non aspirata, che brillava sul marmo nero colpita dal sole del pomeriggio.

    Passavo le giornate così, invece che andare in Grecia. Lo facevo cercando di misurare la grande disperazione che mi pervadeva, e consolandomi con l'illusione che se avessi fatto bene le pulizie domestiche e le commissioni che mia madre e mio padre, ogni giorno, mi assegnavano, forse si sarebbero convinti che me la meritavo la Grecia.

    Ma per i miei genitori, l'idea che io andassi in Grecia o in qualunque altro posto del mondo, a diciotto anni, con i miei amici, era fuori discussione. Ed era, naturalmente, impensabile anche andarci con loro: non avevano mai fatto una vacanza, e nemmeno un vero viaggio. E pur di far fare qualcosa a me che scalpitavo sin da bambina, mi lasciavano per i mesi d'estate, o durante le varie vacanze dell'anno, con mia zia Anna, che era un po' più ricca ed era felice di portarmi ovunque insieme ai suoi tre figli, facendomi dormire e mangiare e divertire davvero. Con mia zia Anna sono stata in vacanza sui monti della Sila, a Camigliatello, a Modena dagli altri zii, nel nord della Puglia – Alberobello, Locorotondo, lo zoo di Fasano, che per chi viene dal Salento rappresentano un vero e proprio territorio sconosciuto – ma mai in Grecia.

    Eppure, andare in Grecia dal Salento non era nemmeno difficile.

    Ci andavano tutti, e tutti quando tornavano dicevano che il mare lì era “comu lu nesciu”, sottintendendo quindi che non è che ne valesse davvero la pena. Io non ci badavo a quei resoconti, perché non potevo credere che la Grecia non fosse un posto eccezionale.

    Dovevo andarci, ce l'avevo a un passo: mi bastava arrivare fino a Brindisi e da lì prendere un traghetto per Patrasso. Ma dove si trovava Patrasso? Che tipo di città era? Non lo sapevo, ma se ci si arrivava con il traghetto significava che c'era il mare e questo mi bastava. Se solo avessi trovato la forza di crescere, di ribellarmi, di impormi, di dire a mia madre che non mi piaceva fare le pulizie, e che era matta e ossessionata dal lindore che durava il tempo di un caffè, e che non era giusto farmi crescere così… Ma quel coraggio mi mancava, e la voglia di vivere piano piano mi stava scivolando via dalle mani e cominciava a confondersi con la polvere che pulivo via dai mobili, con l'acqua che usavo per lavare i pavimenti, con il vuoto.

    Poi però arrivò il Babilonia.

    Il Babilonia era (è) un locale bellissimo sugli scogli di Sant'Andrea. La prima volta che ci andai scoprii che lì la sera c'era tutto: i maschi, le birre, la pizza, e a volte – dicevano i più grandi – i Subsonica che suonavano live. C'era anche il silenzio di uno scoglio sul quale sbatteva il mare Adriatico, grosso e sempre gonfio di tramontana.

    Quel posto era talmente bello che non mi accorgevo, di anno in anno, di trascorrere le sere d'estate in modo sempre identico: seduta con i miei amici sulle panche a mangiare qualcosa, mentre la musica suonava, il mare ci ascoltava, noi tutti imparavamo a flirtare, a baciarci imitandoci l'un l'altro, a vergognarci o esaltarci per qualsiasi cosa.

    Rispetto agli altri, però, quando io arrivavo al Babilonia facevo anche un'altra cosa: fingevo di essere in Grecia.

    Si parcheggiava la macchina su una specie di altura alle spalle del mare, e lì il cellulare smetteva di ricevere il segnale. Quando ci si avvicinava al locale invece, e poi ancora lo si aggirava e si arrivava sullo scoglio più lontano, riprendeva vita. Io lo sapevo e mi mettevo in attesa, dopo poco sentivo il suono di un messaggio in entrata.

    “Benvenuta in Grecia”.

    Ero in Grecia tutte le sere, anche se non ci ero stata mai.

    Prima di andare via tornavo in me, alzavo gli occhi al mare, guardavo verso un punto lontano, oltre un faraglione dal quale spuntava sempre la luna e sentivo di esserci quasi riuscita, la Grecia era lì…

    Pensavo: se resto sino all'alba vedo la costa.

    Non era vero ovviamente, e comunque fino all'alba io non potevo restare. Mio padre e mia madre mi stavano aspettando a casa, nel letto. Li trovavo che dormivano l'uno accanto all'altra ma separati, perché il caldo afoso di agosto li teneva lontani. Io entravo nella loro camera e spegnevo la luce dell'abat-jour che lasciavano accesa. L'uno o l'altra – mio padre più spesso – aprivano appena appena gli occhi e mi sorridevano: erano contenti di vedermi a casa.

    Una sera, però, fu tutta un'altra storia.

    Ero un po' ubriaca, lo eravamo tutti, ci stavamo divertendo e nessuno voleva tornare a casa, ma io dovevo. Così accettai il passaggio del primo che doveva rientrare: Davide. La mattina si svegliava presto, faceva il muratore. Non mi piaceva stare in macchina con lui perché si sapeva che correva fortissimo, come se la sua vita non contasse un cazzo. E insieme alla sua anche la mia, e quella di tutti quelli che capitavano nella sua macchina. Avevo una grande paura a fare quel viaggio di trenta chilometri con lui, ma Davide mi rassicurò dicendomi che non gli era mai successo niente – la statistica era dalla sua parte – e poi non si poteva avere paura a vent'anni.

    Quella notte, sulla strada dal Babilonia verso casa, rischiammo la vita: eravamo partiti da poco ma già Davide correva a duecento all'ora, e in un tratto di strada strettissimo ci trovammo un'auto che arrivava di fronte. Davide rallentò e riuscì a mantenere il controllo, ma la nostra auto sfiorò il bordo della strada e sbandò. Non ricordo esattamente come ce la cavammo con l'altra macchina, ma nessuno si era fatto male e quello che mi è restato di quella notte siamo io e Davide seduti sul ciglio di una strada sterrata sulla quale ci eravamo riparati. Avevamo bisogno di prendere fiato. Lì giù, in basso si vedevano ancora le luci del Babilonia e la musica arrivava fievole ma chiara.

    Restammo seduti sulle pietruzze e le erbacce bruciate dal caldo, a guardare l'Adriatico che ci lasciava addosso la sua frescura. Eravamo vivi.

    “Dopo il Babilonia c'è la Grecia – dissi. Ci andiamo?”.

    Davide mi guardò e si mise a ridere. Poi iniziò a parlare, dicendomi tante cose che sapeva sulla Grecia, perché lui sapeva sempre un sacco di cose su tutto, e così mi acquietò. Si acquietò anche lui, e dopo un po' mi suggerì di andare perché per me era tardissimo. Ci guardammo per un attimo. Una volta Davide, durante una festa, mi aveva messo la mano sul culo e questo ricordo mi fece felice. Pensai che mi avrebbe baciata, invece si alzò, si mise in macchina e riprese a correre come un pazzo verso il paese.

    Quando arrivai a casa mio padre e mia madre mi precedettero affacciandosi al balcone con un'agitazione impressa sul viso che non dimenticherò mai. Erano entrambi in mutande, scarmigliati. Vedendoli mi agitai anch'io perché pensai che fosse successo qualcosa: era successo il mio ritardo.

    Una volta dentro casa, al sicuro dal resto dell'umanità, mio padre mi tirò uno schiaffo.

    Il primo della sua vita. Forse anche il primo della mia vita.

    Me lo presi e andai in camera a vedere l'alba.

    Non capii subito che aveva ragione lui, ma comunque mi sentii responsabile di quello schiaffo. Ero stata una scema, ero diventata troppo grande senza mai ribellarmi, facendo sempre quello che mi veniva chiesto e imparando a essere una persona in grado di passare l'aspirapolvere come se quello dovesse diventare il mio lavoro o tutta la mia vita. Così avevo portato mio padre a sentirsi costretto a tirarmi uno schiaffo, per educarmi o per svegliarmi da quel sonno.

    Qualche tempo dopo, durante un inverno, andai via. Lo feci per bene, non scappai e non andai in Grecia. Andai via, in un'altra città e poi in un'altra ancora e poi in un'altra. Salutai i miei genitori che ora piangevano affacciati allo stesso balcone da dove erano spuntati in mutande la notte che mio padre mi aveva tirato quello schiaffo.

    Poi l'anno scorso una mia amica mi ha detto: andiamo in Grecia.

    Avevo smesso di pensarci alla Grecia. Era un desiderio di ragazza, un fatto del passato.

    Alla mia amica non ho chiesto niente: né quando, né per quanto tempo, né dove di preciso. Forse a Patrasso? Pensavo solo al fatto di poter rispondere di sì, io potevo andare in Grecia e non avevo niente che me lo impedisse.

    Siamo partite insieme a un suo amico che non conoscevo, e siamo arrivati a Mykonos che era l'alba.

    L'albergo ci aveva già avvisati che per la consegna delle camere avremmo dovuto aspettare almeno sino alle 10 del mattino.

    Così ci siamo rifugiati su una spiaggia che si chiama Focos.

    Una spiaggia deserta, larghissima ma tenuta stretta dalla roccia da una parte e dall'altra. La sabbia non era leccata, era ruvida. E il mare era mosso, sincero, vivo.

    Avevo avuto ragione a pensare, per tutta la mia vita, che la Grecia fosse un posto eccezionale.

    Faceva freddo. La mia amica e il suo amico hanno aperto gli zaini e si sono messi addosso tutte insieme le maglie e le giacche che avevano portato.

    Io ero in Grecia.

    Mi sono spogliata, ho indossato il costume, mi sono portato appresso il cellulare e mi sono avvicinata alla riva. Ho messo i piedi in acqua, era freddissima.

    Mi sono fatta un selfie e l'ho mandato al gruppo WhatsApp che ho con i miei. I Macchia – si chiama – come fossimo una dinastia.

    “Qui tutto bene, questo è il mio primo bagno in Grecia”, ho scritto. Dopo pochissimo mi hanno risposto: “Divertiti. E attenta a non prendere freddo.”

    Io ho sorriso, poi mi sono spinta un po' più dentro e mi sono fermata quando l'acqua mi arrivava al ventre.

    Ero in Grecia, su una spiaggia che non sapevo da che parte del mondo guardava. Eppure mi è sembrato di vedere qualcosa, là davanti. Terra, la costa, altri scogli. Poi una costruzione, l'odore di pizza, qualcuno che sgomberava un palco, i Subsonica, una coppia di ragazzi che si baciava. L'alba. Il Babilonia.

    Ilaria Macchia è nata a San Donato, un piccolo paese della provincia di Lecce. E' laureata in Cinema e ha studiato al Centro sperimentale di cinematografia. Vive a Roma e lavora come sceneggiatrice. Ha scritto i film “L'attesa” (2015), “Non è un paese per giovani” (2017). Il suo primo libro si intitola “Ho visto un uomo a pezzi” (Mondadori 2017).