
Lettera a un amico razzista
“Chi assume un atteggiamento razzista è uno che pensa che ci sia un solo modo di essere uomini”. Un parroco di colore e la sua storia truce e allegra nell'Italia invisibile
Ti seleziona quando è sicuro che sei debole mentre lui si trova in condizione di farti veramente male. Il razzista è consapevole che un giorno potrebbe toccare a lui diventare fragile e ritrovarsi nella condizione più bassa della scala umana. Quando si muove, non perde quindi tempo umiliandoti perché sei povero, punta sull'orgoglio, cerca l'offesa sull'origine e il colore della pelle, gli piace farti sentire “lo scarto”.
Ho scelto di stabilirmi a Prato quando nessuno s'immaginava che le persone di “colore” sarebbero venute in massa a vivere qui. Forse per questo il primo impatto non è stato facile La gente mi vedeva camminare per le strade del centro di Prato e quindi gli adulti e gli anziani mi chiamavano “Pelé”, molti mi ritrovavano anche come supplente in una scuola superiore. Mi guardavano e sorridevano. Il sorriso solitamente significa accettazione, quindi sorridevo anch'io. Tutti i curiosi volevano sapere se venivo dalla Somalia, facevo risorgere le memorie dei loro viaggi esotici. E quando mi avvicinavo di più e condividevo dei momenti con i nativi pratesi, sentivo dire: “Mangia, parla, come noi…”.
Ma la cosa più divertente era: “Piange anche lui…”.
A differenza della Francia o del Belgio, man mano che passavano i miei giorni pratesi, perché bruscamente erano arrivate tante altre persone di colore, i “vu' cumprà”, mi imbattevo sempre più in un ostracismo di persone che alla soglia del nuovo millennio dovevano arrendersi all'idea di condividere lo spazio con i “negri”, persone che non avevano rispetto per se stessi e quindi non potevano averlo per me, persone prive d'eleganza, pronte a ridere e a offendere gratuitamente. Persone non preparate, non attrezzate e che dovevano trovare velocemente l'antidoto all'invasione nera.
Prima di me e di altri immigrati di colore, c'erano soltanto dei film (“Indovina chi viene a cena”) e delle canzonette (“Siamo watutsi”).
Con l'inizio degli anni ottanta, alla vista di un immigrato che prende possesso di una cattedra scolastica e della responsabilità di una parrocchia, costretti ad accettare la realtà dei fatti, alcuni “pratesi doc” e gli allergici alla mescolanza si limitavano a ripetere: “Non c'è più religione…”. Qualcun altro reagì in maniera violenta. Quante volte ho discusso con loro!
E' un dialogo tra sordi quando si parla con persone aggrappate al fatto per loro inconvertibile ma per me casuale di essere bianchi o neri. Negli occhi miei c'era la gioia d'esser nero, loro erano sollevati di non poter più cambiare colore, anche se rimanendo nel loro colore di pelle bianca sapevano benissimo che potevano oscillare tra una miseria e l'altra, diventare poveri e disgraziati. Però erano fieri d'esser scampati alla tragedia più tremenda: esser negri. Ho sentito qualcuno benedire e ringraziare Dio, come in quella preghiera ebrea, di non essere non-ebreo, schiavo e donna. Perché ovunque sarebbe andato, indipendentemente dalla sua condizione, sarebbe stato per sempre un essere superiore.
Il primo episodio che ti volevo raccontare è il seguente.
Entro in un bar del centro storico di Prato. Mi rivolgo al barista per chiedere di cambiarmi i soldi e darmi dei pezzi piccoli che mi servivano. Lui mi risponde che non lo può fare gratuitamente. “Devi consumare un caffè al banco oppure andare in bagno pagando 500 lire”. Infatti c'erano ancora le lire. Scelgo di andare in bagno. “Però non lasciare la puzza nel bagno”, mi dice. Tranquillo, faccio solo pipì. “Okay”, mi risponde. “Dammi i soldi”. Gli tendo le diecimila lire. Lui mi chiede di posarle sul banco del bar. Senza toccare i miei soldi, vi mette accanto la chiave del bagno. Prendo le chiavi ed entro in bagno. Tempo un minuto, esco fuori e chiudo la porta. Il barista sta preparando un caffè a un cliente. I miei soldi sono sempre lì. Metto le chiavi dove le avevo prese e aspetto il resto in spiccioli come avevo chiesto. A quel punto il barista chiama un ragazzo che si chiama Massimo e gli chiede di controllare se avevo lasciato pulito il bagno.
Massimo, senza nemmeno essersi alzato dalla sedia, gli risponde dicendo che “la scimmia” ha lasciato la pipì per terra e ha anche sputato nel lavandino. “Ah! Sì… ?”.
Il barista mi guarda e dichiara che oltre il prezzo per l'uso del bagno, dovrà trattenere altri cinquemila lire per lo sporco che avevo lasciato nel suo bagno. La gente nel bar ride. Anche il barista ride. La cosa mi conforta e mi predispone a stare allo scherzo. Io protesto, con un tono scherzoso. Massimo si alza e si avvicina a me. “Ehi… non vuoi pagare?”. Gli rispondo che non vedo perché dovrei pagare. Ho lasciato il bagno come l'avevo trovato. E poi, scusa, come fai a sapere che sono stato io? La sua replica è: “Voi negri siete sudici e vomitevoli sempre”. Io gli dico: Questa è una tua opinione. Guardo il barista e gli dico (seriamente): “Se non volete scambiarmi i soldi basta dirlo”. “No, no, no… tu devi pagare”. Io non pago un bel niente. “Okay…”. Massimo prende il biglietto e sputa abbondantemente sui miei soldi. Tutti ridono. Quei soldi sono tutto quello che ho. Non ho scelta. Li devo prendere, li avrei presi anche se invece di sputarci sopra avesse fatto di peggio. Cerco il modo di ripulirli con il mio fazzoletto di stoffa che ho in tasca. Da quel giorno uso solo fazzoletti di carta. Esco trattenendo nel petto tutta la rabbia che ho dentro. “Ciao scimmia, non riportare mai più la tua puzza qui dentro”.
Vedo un altro bar poco lontano. Vi entro con le lacrime agli occhi. E' stato quel giorno che ho conosciuto una delle persone più belle del mondo, soprannominato “Il sindaco”. Gli racconto ciò che mi era appena successo. Lui si toglie il suo grembiule e prende le mie diecimila lire e mi dice di aspettare. Si dirige verso il bar dove ero stato umiliato e si fa dare dei soldi spiccioli. Con Michele “il Sindaco” ho condiviso l'impegno e la lotta in difesa dei primi albanesi che fuggivano la miseria e che erano arrivati in città; nel suo “Caffè del Teatro” ho presentato il mio primo libro “Accarezzare le mani” e soprattutto insieme abbiamo organizzato delle serate culturali tra cui la lettura delle poesie scritte da una ragazza nigeriana costretta a prostituirsi.
La cosa che mi ha fatto male quel giorno, come quando fui aggredito, insultato pesantemente e umiliato da un ciclista davanti alla chiesa di Migliana è sempre stato il veder ridere la gente che assiste ad una scena così disumana senza muovere un dito. La differenza nella valutazione delle situazioni vissute altrove e in Italia è principalmente in questo immobilismo di chi guarda. Il mio disorientamento è sempre stato grande anche perché non riesco mai a dissociare la grande cultura con le buone maniere, e di più ancora la fede con la giustizia e la difesa di chi si trova in difficoltà. Da questo episodio a quello della coppia che rifiuta di farsi sposare dal negro, dalla bottiglia spaccata in testa (seguita da una denuncia e da un processo dove il Tribunale di Prato mi rifiuta di ritenere l'aggravante razzista) agli sputi di un automobilista… ho imparato a riconoscere le persone e le situazioni potenzialmente pericolose, a stare zitto (festeggio il mio quindicesimo anno che non finisco sui giornali per fatti di aggressione di tipo razzista) e a difendermi in altri modi.
La mia opinione è che, concentrandosi in un solo cuore la repulsione verso neri, ebrei, zingari e omosessuali, i razzisti abbiano sbagliato pianeta. Poi scelgono anche di mostrarsi molto amichevoli, sono amici calorosi, pronti a tutto per le persone alle quali vogliono bene… ma è disperazione. Alcuni di loro sono cristiani convinti e capaci di gesti plateali e di carità fragorosa. Ma ci tengono al fatto che ogni negro debba sentirsi inferiore.
Chi assume un atteggiamento razzista è uno che pensa che ci sia un solo modo di essere uomini: essere bianchi oppure non essere. Si può essere ricchi o poveri, istruiti oppure analfabeti, onesti oppure incoerenti, sfortunati o ignoranti… tutto questo non conta, l'importante è essere bianchi. Anzi, l'essere bianchi è l'unico modo d'essere, la condizione ontologica, mentre l'essere uomini viene considerato quasi una casualità, come lo è l'essere poveri o ricchi. Un pensiero radicato per loro.
E' altrettanto radicata in me l'idea che non ci sia bisogno né di filosofia né di teologia e tanto meno di scienza per spiegare e far capire a chi non accetta la diversità e per capriccio vorrebbe costringere la natura a cambiare il suo modo di procedere, per seguire l'idea più restrittiva e impoverirsi.


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