Il capo dell'hardware intelligente di google ha un chiodo fisso: vuole esserti d'aiuto

Eugenio Cau

    L'utilizzo di helpful è martellante e continuo, si vede che gli esperti di comunicazione ci hanno lavorato molto, e a ragione: quell'aggettivo è il cuore della strategia di Google riguardo ai suoi prodotti smart – e, potremmo aggiungere, riguardo a tutti i suoi prodotti.

    Helpful è un aggettivo difficile da rendere in italiano. Spesso si traduce con “utile”, ma il significato letterale sarebbe “che fornisce aiuto”. E' una gradazione superiore di utilità, helpful sfiora l'essenziale. In quest'èra di techlash in cui molte grandi aziende della Silicon Valley appaiono timide e in ritirata davanti alle preoccupazioni sulla privacy e sull'utilizzo dei dati personali – si pensi soltanto a Mark Zuckerberg, che qualche anno fa dava la privacy per morta e oggi annuncia: la privacy è il futuro – Google ha deciso di adottare una strategia al contrattacco: non ignoriamo le vostre preoccupazioni sulla privacy e sui dati personali, ma ricordatevi che quei dati li usiamo per creare prodotti helpful, li usiamo per addestrare un'intelligenza artificiale che già oggi rende migliore la vita di molte persone.

    Rishi Chandra, che ha trascorso a Mountain View quasi 13 anni, è un tassello fondamentale di questa strategia, perché un anno fa Google ha unito sotto al suo comando la gestione dei prodotti smart a marchio Google (come l'assistente vocale Google Home) e quelli a marchio Nest, una startup acquistata da Google nel 2014 che produce campanelli, citofoni, termostati – tutti ovviamente smart, anzi: helpful. “La gente non vuole cose smart, vuole cose che siano d'aiuto”, dice.

    Chandra si trova anche a presiedere quella che lui stesso definisce la prossima “grande trasformazione tecnologica”, quella dell'“ambient computing”, che significa: il computer non ce l'hai più in mano, o sulla scrivania, il computer è il luogo dove ti trovi, sia esso la tua casa o una strada della tua città. “Sia la rivoluzione del personal computer 20 anni fa sia quella del mobile computing 10 anni fa hanno portato enormi opportunità ed enormi cambiamenti nella società, e noi vogliamo essere sicuri di essere pronti”. Chandra dice che il suo chiodo fisso è capire dove sarà l'industria tra 5-10 anni, ed elenca quattro princìpi chiave per costruire la smart home (ops: helpful home) del futuro. Anzitutto, in un contesto di ambient computing i device, i sensori e gli apparecchi sono molteplici, ma l'architettura deve essere disegnata in modo che tutto funzioni come una macchina unica.

    La relazione con l'ambient computing, inoltre, cambia (secondo principio). “Questo è il mio smartphone”, dice Chandra, sollevando un Google Pixel, “ma se compro uno smart speaker e lo metto in casa, quell'apparecchio non è più soltanto mio, lo utilizzeranno altri, sia che vivano in casa mia sia che siano ospiti, vicini, amici. Il modello di computing deve funzionare in ambienti comuni, non soltanto personali, e deve tenere conto di diverse tipologie di esperienze”.

    Un terzo principio riguarda il fatto che questo nuovo modo di usare i computer sia accessibile a tutti, “dai cinque ai novantacinque anni”.

    Ma il quarto principio è probabilmente il più interessante, e forse il più rivelatore: “Davanti a un modello di computing diffuso in cui le esperienze sono sia personali sia comuni, anche il modello di privacy deve cambiare”, dice Chandra. “Poiché uno smart speaker non è soltanto dell'utente che l'ha acquistato, ma può essere usato da tutte le persone che passano per casa, bisogna pensare a un modello di privacy che sia assolutamente trasparente riguardo a come ciascun apparecchio funziona. Non deve saperlo soltanto il proprietario, ma chiunque si interfacci con il device. Inoltre, deve tenere conto dell'approccio di ciascuno alla privacy. Lo spettro è ampissimo, spesso è differente all'interno di ciascuna famiglia”. E' un punto notevole: la privacy è mobile, non ne esiste una sola. Chandra racconta che inizialmente, nella realizzazione di prodotti smart per la casa, il suo team aveva fatto la scelta esplicita di non installare telecamere per esempio in Google Home, per non destare preoccupazioni legate alla privacy. Ma poi lui e i suoi si sono accorti che molti utenti vogliono le telecamere. Sono utilissime, per esempio per fare videochiamate. Così nel prodotto successivo la telecamera l'hanno messa, ma con una finestrella di plastica per bloccarla e con una lucina che dice quando è attiva e quando no. “Abbiamo creato uno spettro di possibilità. Dobbiamo costruire modelli che siano flessibili, e che siano in grado di ottimizzare la privacy in base alle esigenze di tutti. L'obiettivo è fare in modo che la priorità sia rispettata in modo graduale, e fare in modo che siamo noi a rispettare il tuo modello di privacy e non tu ad adattarti al nostro”.

    L'ultimo assistente domestico di Google, il Nest Hub Max presentato questa primavera, non soltanto ha la videocamera: è equipaggiato con tecnologie di riconoscimento facciale. Il dispositivo riconosce chi ha davanti e gli fornisce servizi personalizzati. Chandra dice che c'è differenza tra il riconoscimento facciale di cui si parla nelle cronache, quello usato per strada dalle telecamere di sorveglianza, e quello usato in casa dai dispositivi come il nuovo Nest: “C'è una nozione di riconoscimento facciale in cui io come utente fornisco la mia faccia perché questo mi aiuta a ottenere servizi migliori. L'iPhone che si sblocca con il riconoscimento del volto è un ottimo esempio. Noi usiamo un modello simile, in cui l'utente dice esplicitamente: per me è ok mettere il modello della mia faccia in questo device per ottenere dei servizi personalizzati. C'è poi un altro tipo di riconoscimento facciale che va oltre Google ed è quello in cui gli utenti non forniscono consapevolmente le loro facce ma i sistemi di sorveglianza cercano di riconoscerli comunque. Noi cerchiamo di lavorare in modo che da parte degli utenti ci sia sempre il consenso e che siano d'accordo con le tecnologie che usiamo per loro”.

    Si torna sempre all'helpful quando si parla delle cose smart di Google, e anche le telecamere con riconoscimento facciale, così come tutti i sensori e i dispositivi pensati da Google per la casa e non solo, mirano allo stesso grande obiettivo. “Il modo in cui oggi descriviamo la ‘helpful home' dipende molto dai comandi e dal controllo: tu dai un comando e lei agisce al posto tuo. Ma ci sono molte cose che una helpful home potrebbe fare per te basandosi sulla comprensione del contesto attorno all'utente. Comprendere il contesto per fornire migliore aiuto è una grande opportunità di crescita per noi”, dice Chandra. La casa pensata da Google non offrirà soltanto aiuto al suo padrone. Imparerà a comprenderlo, che ci piaccia o no.

    Eugenio Cau

    • Eugenio Cau
    • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.