Il governo Termini, please
Il disastro Di Maio spiegato con Termini Imerese, a un passo da una morte che si poteva evitare se il ministro non avesse fatto scappare dall'Italia un investitore chiave. Inchiesta
E sistono molti modi per uccidere una fabbrica: affidarsi agli incompetenti è uno di questi. Termini Imerese non trova pace. La parabola dell'ex stabilimento Sicilfiat, realizzato nel 1970 a pochi passi dal mare, in prossimità dell'autostrada e della ferrovia per agevolare la logistica della cosiddetta “zona industriale”, è l'emblema di un processo annoso che con il governo gialloverde ha subìto una brusca accelerata: si chiama “deindustrializzazione”. E dire che negli anni Ottanta la fabbrica aveva raggiunto i tremiladuecento addetti, oltre il doppio rispetto al primo giorno. Poi il declino. Dell'impianto, del Mezzogiorno, dell'Italia.
Se è chiamato ad occuparsi di lavoro e sviluppo economico chi non ha mai avuto dimestichezza né con l'uno né con l'altro, non resta che farsi il segno della croce. A Termini Imerese lo sanno bene gli operai che da giorni protestano davanti ai cancelli dello stabilimento, senza cassa integrazione da due mesi “per problemi tecnici”, si dice, e adesso assistono all'ennesima piroetta dell'ennesimo ministro del Lavoro che annuncia l'ennesima “norma d'urgenza” per l'ennesima proroga degli ammortizzatori sociali. Luigi Di Maio promette una nuova iniezione di soldi pubblici, a carico dei contribuenti. Senza un progetto, senza una visione. Già questo sarebbe di per sé grave per il governo che ha promesso il “cambiamento”, insieme all'abrogazione della povertà, e rispolvera invece le peggiori ricette assistenzialiste della Prima Repubblica. Ma nel caso di specie, nel caso di Termini Imerese, c'è di più.
Quando nel 2011 Sergio Marchionne chiude lo stabilimento della Lancia Ypsilon ritenuto troppo piccolo, scomodo e poco produttivo, il ministero di via Veneto e Invitalia tentano diversi esperimenti per tenere in vita il polo industriale. Si susseguono una catena di fallimenti, tra avventurismi e scandali vari, fino all'ingresso nel 2015 di Blutec, società del gruppo Metec Stola del torinese Roberto Ginatta, vicino alla famiglia Agnelli (in particolare, ad Andrea e a Lapo Elkann). Il piano è quello di produrre componentistica per auto ibride ed elettriche, i privati siglano un accordo con Invitalia per un piano agevolato di finanziamenti pubblici, il progetto parte ma ben presto si accumulano ritardi e diffide per la mancata presentazione del primo “Sal” (stato avanzamento lavori) al punto di provocare un duro braccio di ferro tra il gruppo e la società del ministero dell'Economia. Nel frattempo, però, si presenta una possibilità concreta per risollevare le sorti della fabbrica: viene individuato un investitore estero, i cinesi dell'azienda Jiayuan, disposti a investire cinquanta milioni di euro per il rilancio dell'impianto. C'è già un protocollo d'intesa messo nero su bianco da Blutec e dalla società mandarina, si prevede la firma in occasione della visita di stato del presidente Xi Jinping lo scorso marzo, ma il governo gialloverde, e nello specifico il ministro Di Maio, si lasciano scappare questa opportunità. I cinesi avrebbero prodotto 50mila auto elettriche in tre anni destinate al mercato europeo, Blutec ha definito ogni dettaglio per favorire l'ingresso dell'investitore estero, l'unica fonte di cura è la transazione aperta con Invitalia per la restituzione di circa 21 milioni di euro di agevolazioni concesse. A ben vedere, già da diversi mesi il gruppo torinese ha raggiunto un accordo con Invitalia ma la questione è congelata per la mancata firma del ministro (in)competente, Di Maio. L'accordo stabilisce, in particolare, la restituzione rateizzata dei circa 21 milioni di euro ottenuti come prima tranche del finanziamento agevolato di 95 milioni previsto dal “contratto di sviluppo”. Ai solleciti dell'azienda presso il ministero si aggiungono quelli di Invitalia, come testimoniato dalla missiva del 19 luglio 2018, firmata dall'ad Domenico Arcuri e visionata dal Foglio. “Per come concordato nel corso delle riunioni presso codesto ministero – si legge – le modalità di restituzione sono state oggetto di riunioni tra l'ufficio legale di Invitalia e i legali di Blutec. A seguito di articolate trattative si è addivenuti ad una bozza di accordo che in sintesi statuisce...”, segue l'elenco delle obbligazioni assunte da Blutec per restituire i fondi già incassati e ottenerne di nuovi secondo un nuovo piano industriale. “In ragione di tutto quanto sopra rappresentato – conclude Arcuri – si richiede l'autorizzazione alla sottoscrizione del descritto accordo”. Dal ministero di Di Maio giunge un silenzio tombale. Se il ministro avesse apposto la sua firma, Blutec avrebbe restituito le somme secondo l'accordo siglato con Invitalia che, dal canto suo, avrebbe definito un nuovo contratto di finanziamento modulato sulla base dei nuovi progetti sull'elettrico, quelli alla base della partnership con i cinesi pronti a investire 50 milioni di euro. Ma la storia, com'è noto, non si fa con i “se”. Le cose vanno diversamente. Nessuna firma, accordo congelato, fabbrica in sofferenza fino agli arresti dei manager di Blutec, il presidente Ginatta e l'ad Cosimo Di Cursi, che finiscono ai domiciliari lo scorso marzo (il secondo rientra in fretta dal Brasile per consegnarsi all'autorità giudiziaria). L'inchiesta per presunta malversazione ai danni dello stato colpisce i vertici del gruppo a una settimana dalla visita di stato del presidente cinese Xi che avrebbe dovuto benedire la firma del memorandum d'intesa tra Blutec e Jiayuan.
In questi giorni davanti ai cancelli della fabbrica un operaio sulla cinquantina, Vito La Mattina, ha piantato una tenda e vive lì. Non ha trovato ancora il tempo per guardare il video che spopola in Rete, quello del vicepremier Di Maio che, senza un filo di vergogna, spiega il senso del “mandato zero”. Il signor Vito non si è rivolto neppure al locale “navigator”, di redditi di cittadinanza non vuol sentir parlare. “Per oltre venticinque anni ho lavorato in Fiat, sono stanco di fare il cassaintegrato – dice ai cronisti che lo interpellano – Ho degli attestati di specializzazione, mi mandino dove vogliono ma mi facciano lavorare”. Non riesce più a pagare bollette e rate del mutuo, la moglie e i due figli maggiorenni li ha mandati a vivere dalla madre. “Non ho i soldi per fare la spesa. Da quando Blutec ha rilevato la fabbrica – racconta l'operaio – non ho mai lavorato, neppure per un'ora, mai messo piede nello stabilimento perché ormai da cinque anni siamo sempre in cassa integrazione”. Un collega ha intrapreso lo sciopero della fame, un altro minaccia di togliersi la vita. “Si è determinata una situazione di estremo disagio che va sanata subito – si legge nella nota congiunta firmata da Cgil Sicilia e Fiom regionale - Chiediamo al governo nazionale e al Parlamento di votare l'emendamento per la proroga della cassa integrazione dal primo luglio al 31 dicembre, dando séguito all'impegno assunto dal ministro Di Maio, finora inevaso”. Le organizzazioni sindacali chiedono inoltre che, entro il 31 ottobre, il commissario straordinario presenti il piano industriale “per rilanciare lo stabilimento e il lavoro dei 670 lavoratori Blutec e dei 300 dell'indotto”. Il clima è rovente, la disperazione brucia.
Come spesso accade in Italia, alla conclamata inadeguatezza dei governanti che, dal ministero di via Veneto, avrebbero dovuto gestire con diligenza ed efficacia un dossier così rilevante per centinaia di famiglie e per lo sviluppo industriale del Sud, si è affiancata la tempesta giudiziaria. Lo scorso 12 marzo i finanzieri del nucleo di polizia economico-finanziaria di Palermo eseguono le misure cautelari disposte dal gip di Termini Imerese nei confronti del 72enne Ginatta e di Di Cursi, rispettivamente presidente e ad di Blutec. I due manager sono accusati di malversazione ai danni dello stato per non aver impiegato correttamente la prima tranche di 21 milioni ottenuti per il rilancio dello stabilimento. Viene emesso inoltre un decreto di sequestro preventivo dell'intero complesso aziendale e delle relative quote sociali della Blutec spa, nonché dei patrimoni dei due indagati per un valore di sedici milioni e mezzo di euro. Gli arresti, a una settimana dall'arrivo del presidente Xi, impediscono la firma del protocollo d'intesa con i cinesi di Jiayuan che non rinunciano al dossier ma lo congelano. Il tribunale del riesame di Palermo dichiara l'incompetenza territoriale del gip siculo e trasmette gli atti al tribunale di Torino. “Il criterio discretivo della sede effettiva della società – affermano i giudici – è da ricollegare alla necessità di individuare il luogo in cui si perfezionano le scelte dell'organo di gestione che dirige l'impresa, al quale è imputabile l'inadempimento descritto dalla condotta tipica”. Nel caso di specie, Blutec è una società con sede a Rivoli, nel torinese, dove hanno sede gli uffici di Ginatta e di Di Cursi: in quel luogo, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stata assunta la decisione di non destinare le somme erogate alle finalità di pubblico interesse cui le stesse erano state specificamente destinate. Anche le misure cautelari vengono annullate dal Riesame che, pur riconoscendo la gravità del quadro indiziario, ritiene insussistente il pericolo di reiterazione del reato essendo Ginatta incensurato, avendo egli manifestato la volontà di restituire il finanziamento concesso ed essendo di fatto impossibilitato a ottenere nuovi finanziamenti pubblici prima della restituzione integrale di quello revocato. Le sue quote in Blutec sono sotto sequestro, e con la nomina dell'amministratore giudiziario si è proceduto alla sua estromissione dalla gestione aziendale. “La rilevata assenza di un'improrogabile necessità di limitare la libertà personale del Ginatta”, senza attendere la decisione del giudice competente, impone l'annullamento dell'ordinanza, scrivono i giudici. Ginatta e Di Cursi tornano in libertà. I legali dei due manager respingono “con forza” le accuse. Il gruppo Blutec paga, ogni anno, 65 milioni di stipendi per oltre tremila dipendenti. “Al momento dell'ingresso nel dicembre 2014, nella sola Termini Imerese il gruppo ha investito più di 37 milioni di euro, pagando stipendi per un ammontare complessivo di 17,5 milioni con mezzi propri e senza attingere ad alcuna risorsa pubblica — sostengono gli avvocati Michele Briamonte e Nicola Menardo dello studio Grande Stevens — confidando anzi nel supporto doveroso di capitale pubblico per il rilancio del sito secondo i termini e gli strumenti consentiti dalla legge e nell'interesse della collettività”. Di conseguenza, “è molto arduo immaginare una preordinata macchinazione per sottrarre fondi pubblici nettamente inferiori ai costi già ad oggi sostenuti in proprio per la reindustrializzazione del sito e i relativi progetti occupazionali”.
La morale di questa storia infinita è che Termini Imerese è a un passo da una morte che si poteva evitare. Di Maio non ha dato il suo benestare all'accordo, siglato da Invitalia e Blutec, per la restituzione dei finanziamenti e per un nuovo piano industriale forte dell'investimento cinese. Gli incompetenti sono riusciti così a far sfumare la firma del memorandum d'intesa prevista per lo scorso 23 marzo, in occasione della visita del presidente Xi a Palermo, ultima tappa del viaggio italiano. Gli arresti e la grancassa mediatica hanno fatto il resto. Per quel che vale, sul piano giudiziario, ad oggi i vertici di Blutec non sono stati neanche rinviati a giudizio: presto o tardi, le accuse, già gravide di conseguenze economiche e sociali, passeranno al vaglio di un giudice, si spera. Nel frattempo i cinesi, che avevano concesso tre mesi al gruppo torinese per calmare le acque e ottenere l'approvazione del ministero di via Veneto, si sono congedati senza tanti convenevoli. Davanti ai cancelli dello stabilimento resta la tenda del signor Vito, l'operaio solitario che risponde alle domande dei cronisti, visto che in questi giorni i ministri, da quelle parti, non si fanno vedere.
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