Rivedere nella “Chimera” tutta la felicità creativa di Mario Schifano
Rimini. “Creerò una chimera. Una chimera autentica, come la fantasticavano gli Etruschi: un animale impossibile, fatto da dieci bestie diverse, metafora della superiorità della fantasia sulla realtà. Una chimera non si può raccontare, ma si può dipingere. Ed è quello che farò, sotto gli occhi del pubblico arrivato per assistere all'inaugurazione delle otto mostre celebrative dell'anno degli Etruschi, la sera del 16 maggio in piazza SS. Annunziata, a Firenze”. Così, sulle pagine di Panorama, Mario Schifano annunciava la sua performance che, in una notte del 1985, diede vita a una delle opere più imponenti e rappresentative della sua incontenibile energia creativa. Il quadro, intitolato “La Chimera”, appunto, grande dieci metri per quattro, formato da dieci tele accostate, oggi appartiene a un collezionista privato ed è stato esposto in pubblico soltanto due volte (entrambe a Roma). In questi giorni l'opera è di nuovo visibile in un contesto insolito: il Meeting di Rimini. L'opera è la spettacolare ouverture di una mostra intitolata “Now Now. Quando nasce un'opera d'arte”, che vede sette giovani artisti selezionati da Casa Testori lavorare per tutto il tempo della kermesse davanti agli occhi dei visitatori.
Tornare a guardare questo capolavoro a poco più di vent'anni dalla morte del più maledetto e, al tempo testo, del più bambino tra gli artisti italiani del secondo Novecento, ci aiuta non solo a ricordarci della sua grandezza, ma anche a quanto l'arte possa e debba avere, anche nella sua realizzazione, un ruolo pubblico. Non tanto perché veicolo di questo e quel contenuto, quanto, piuttosto, come possibile crepa nel muro di un dibattito pubblico diventato un bunker buio e soffocante.
La storia di quella notte è stata raccontata da Luca Ronchi nel suo “Mario Schifano. Una biografia”, (Johan & Levi) attraverso le testimonianze dei presenti. “A Firenze è durata un'oretta, un'oretta e mezza”, racconta Renzo Colombo, segretario personale di Schifano: “Per aiutare c'eravamo io e alcuni ragazzi dell'Accademia. Avevamo preparato sagome di cartone con l'immagine della Chimera per disegnare i contorni delle figure seguendo le indicazioni di Mario. Poi lui è arrivato e ha cominciato a dipingere, a stendere gli smalti. C'era Achille (Bonito Oliva, ndr) che spiegava al pubblico la realizzazione dell'opera. Si è preso un sacco di insulti, gli hanno tirato anche le monetine”. In piazza, come racconta anche il mercante e gallerista Massimo D'Alessandro, era presente il gruppo di extraparlamentari che da alcuni anni l'avevano occupata e non gradivano l'evento organizzato dalla città senza il loro permesso. Racconta D'Alessandro: “C'era Mario che lavorava tantissimo, con secchi di vernice, di fronte a un muro enorme fatto di tante tele accostate, immerso nei rumori di dissenso, tra cori beffardi, fischi, insulti. Pian piano il suo lavoro prese possesso della piazza, la gente cominciò a stare zitta e i ragazzi si misero a guardare quest'uomo che lavorava, lavorava, facendo fatica, in una specie di impresa titanica”. Ricorda invece la De Bei: “Quando finalmente alzarono le tele per far colare lo smalto la gente ammutolì, i fischi cessarono. Ci fu un'esternazione di meraviglia. Davanti ai nostri occhi aveva preso vita un paesaggio con la linea dell'orizzonte molto bassa. Dal terreno le sagome grondanti delle chimere partivano in volo verso il blu profondo del cielo, capovolgendosi e volteggiando nell'aria verso il bianco accecante della luce al lato opposto, a dissolversi come sogni al mattino. Non si sentiva volare una mosca. Lo guardavo e pensavo che c'era riuscito, aveva realizzato un'opera emozionante come la sua esecuzione, uno spettacolo a cui tante volte avevo assistito da sola”.
Il gallerista modenese Emilio Mazzoli arrivò a Firenze in compagnia di Herbert Brandl, pittore austriaco esponente della corrente dei Nuovi Selvaggi, oggi stimato professore di pittura all'Accademia d'arte di Düsseldorf. Ricorda il gallerista: “Brandl rimase molto affascinato dall'atmosfera, dall'intensità della situazione in cui la pittura era mostrata apertamente e non era più un fatto privato. Quando tornò in albergo era come fuori di sé e cominciò a dipingere le pareti della stanza. La mattina dopo mi chiamarono dalla direzione dell'albergo e dovetti pagare tutti i danni”.
Anni dopo, nel 1989, in un catalogo dedicato all'opera, realizzato dal primo acquirente, il gallerista padovano Mastrogiacomo, Bonito Oliva osserva: “L'artista romano ha capito che essere moderno significa innanzitutto essere uomo moderno, cioè colui che non si sottrae agli inviti della vita, consapevole della occasionalità di una esistenza non pianificabile”. E' quanto, con altre parole, aveva già detto lo stesso Schifano sulle pagine di Panorama alla vigilia della performance: “Che verrà fuori, alla fine? Come sempre, è impossibile da dire nel dettaglio, perché tutta la mia pittura si trasforma man mano che nasce”.
Oggi guardiamo l'esito di quella cavalcata fiorentina e possiamo vederci dentro tutto, o quasi, Schifano: l'energia, la velocità, l'eleganza, l'irriverenza, il coraggio, il gusto, la non paura di sbagliare. La testimonianza di una ritrovata vitalità, dopo i periodi bui del decennio precedente. Una felicità creativa che, come spesso accade, è difficile disgiungere dalle vicende biografiche. Così, infatti, concludeva Schifano il suo scritto per Panorama: “E dopo gli Etruschi? Ho molti programmi. Ma il progetto più importante è quello che da quattro mesi abbiamo iniziato Monica, mia moglie, e io: uno Schifano autentico al cento per cento, mio figlio, che nascerà in autunno”.
Luca Fiore
Il Foglio sportivo - in corpore sano