Scusi bonafede, ma i 91 milioni?
Il pasticciaccio brutto della Sicilia su cui tutti, politici, pm, antimafie e il ministro spazzacorrotti stanno muti
P er favore, dello scandalo che stiamo per raccontarvi non dite nulla ad Alfonso Bonafede, il ministro di Giustizia che con il decreto “spazzacorrotti” credeva di avere debellato inganni e malversazioni, truffe e ruberie, peculati e sopraffazioni. Non ditegli nulla perché finirebbe per abbattersi o, peggio ancora, per sprofondare in una irredimibile malinconia. Lui ce l'ha messa tutta. Ha sradicato tutele e garanzie. Ha incoraggiato, eccome, le teorie giustizialiste secondo le quali non esistono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti dagli intrepidi magistrati. Ha persino introdotto nell'ordinamento il famigerato trojan, uno strumento inquisitorio capace di intercettare non solo le conversazioni degli indiziati ma anche parole, umori e rumori di tutti quelli che si trovano nei paraggi e che con l'indiziato non hanno magari nulla a che spartire. Siate buoni con Bonafede. Risparmiategli il colpo al cuore. Non ditegli che in Sicilia – nella sua Sicilia – uno dei tanti predatori arrivati qui, nei saloni dorati di Palazzo d'Orleans, per vendere fumo è riuscito a mettere a segno l'affare del secolo: un colpo grosso da 91 milioni di euro. Pagati dalla Regione e – scandalo nello scandalo – finiti poi, attraverso un immancabile giro di società, nei paradisi fiscali del Lussemburgo.
E' successo tutto nel 2007, quando Totò Cuffaro, governatore della Sicilia, conferì a Ezio Bigotti, un avventuriero venuto da Pinerolo, l'incarico di preparare un censimento dei beni immobili riconducibili alla Regione. Bigotti, va da sé, promette mare e monti. E per meglio aggirare intoppi burocratici e questuanti della politica ingaggia un consulente di tutto rispetto: Gaetano Armao, un mestolo buono per tutte le pentole. Il quale, tre anni dopo, diventa assessore al Bilancio di Raffaele Lombardo, il presidente succeduto a Cuffaro. Armao è un uomo di mondo. Ma appena si accorge che Repubblica comincia a svelare le malefatte nascoste sotto il fantomatico censimento, apparecchia sul palcoscenico della politica un moralismo dirompente, almeno per la Sicilia: sbandiera un elenco di inadempienze; mette in mora il suo fraternissimo amico Bigotti e, manco a dirlo, blocca – proprio lui, l'ex consulente – i pagamenti alla società “Sicilia Patrimonio Immobiliare”, controllata dall'immobiliarista piemontese. Blocca i pagamenti ma non lo trascina in giudizio. E da questa discrasia nasce ovviamente una vertenza grande quanto una casa. Che, manco a dirlo, consente all'avventuriero di Pinerolo di chiedere e ottenere risarcimenti per 91 milioni e, all'un tempo, di risparmiarsi le spese e la fatica di portare al termine il censimento. Una manna dal cielo.
Dopo la cacciata di Lombardo, finito come Cuffaro nel vicolo cieco di una implacabile inchiesta giudiziaria, arriva a Palazzo d'Orleans un nuovo presidente, Rosario Crocetta, una macchietta della politica. Che dopo essersi intestato, pure lui, “un governo del cambiamento” finisce per recitare nei talk-show solo una chiassosa antimafia da avanspettacolo. E lo scandalo del censimento farlocco rimane lì, ingrottato nei sotterranei della Regione. Non indaga la procura della Repubblica né la procura della Corte dei Conti. Non si agitano i magistrati coraggiosi né i comitati per la legalità. Non si affannano i giornalisti da premio Pulitzer né le avanguardie della cosiddetta società civile. Non si allarma nemmeno la commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi, sempre così attenta a cogliere dai piani alti di palazzo San Macuto anche il più tenue venticello proveniente da un qualunque scandalo politico.
Arriviamo così ai nostri giorni. Sconfitto il Pd e il partito di Crocetta, alla Regione si insedia Nello Musumeci, eletto da una coalizione di centrodestra. Che come assessore al Bilancio chiama al suo fianco proprio Gaetano Armao, l'ex consulente di Bigotti, l'avvocato dalle mille risorse, l'uomo che conosce le strade di Arcore e gode dell'affettuosa amicizia di Licia Ronzulli, la straripante segretaria del Cavaliere. Ma per l'avventuriero di Pinerolo il destino non è più rose e fiori. E lo dimostra il fatto che il procuratore di Messina, Maurizio De Lucia, lo manda agli arresti domiciliari con l'accusa di corruzione in atti giudiziari: avrebbe avuto un ruolo un ruolo non secondario nelle trame di Piero Amara, l'avvocato siracusano specializzato nella compravendita di magistrati, in particolare di quelli che, al Consiglio di Stato, si prestavano ad aggiustare e manipolare le sentenze.
Pur essendo stato l'unico ad adottare il pugno duro, neppure De Lucia chiede però a Bigotti una convincente spiegazione sullo sporco affare dei 91 milioni pagati dalla Regione per un censimento che nessuno ha mai visto. E se ne guarda bene anche la Corte dei Conti che, pur manifestando la necessità di avere un quadro degli immobili – adempimento indispensabile per arrivare alla definizione del patrimonio e alla parificazione del bilancio regionale – chiede ufficialmente a Musumeci di fornire comunque un elenco. Ma l'elenco non c'è. Perché, nonostante i 91 milioni versati profumatamente a Bigotti e poi finiti in Lussemburgo, il censimento non è stato mai fatto e i pochi dati inseriti nei computer – prima che Armao sospendesse i pagamenti e aprisse la redditizia vertenza – sono protetti da una password che il funambolo di Pinerolo non sgancia. Anzi, fa sapere che, oltre alla montagna di soldi già incassati, pretende altri 49 milioni: i danni che la Regione deve risarcirgli andrebbero, a suo avviso, ben oltre la cifra già pagata.
Sarà un brutto colpo per l'autostima del ministro Bonafede ma la situazione è ancora ferma al punto zero: dalle casse della Regione sono volati via 91 milioni ma sul colossale scandalo non c'è una verità, non c'è un responsabile, non c'è un indiziato, non c'è un imputato, non c'è nemmeno un fascicolo aperto e intestato a ignoti. Altro che “Spazzacorrotti”: la legge che il Guardasigilli si è appuntata al petto come una medaglia non ha dato, almeno su questo caso, i risultati sperati. Il messaggio che la Sicilia manda a Roma, in via Arenula, è a dir poco devastante. Pur con un ordinamento giudiziario basato sull'obbligatorietà dell'azione penale – uno strumento giurisprudenziale a volte anche spietato: se rubi una mela o un paio di calze finisci in galera – succede che un predatore arriva a Palazzo d'Orleans, arruola una comitiva di ascari, congegna una stangata da cento milioni e scappa con il malloppo senza che ci sia un uomo di legge che gli chieda conto e ragione; senza che nel codice si trovi una norma che possa incastrarlo; senza che un magistrato o un inquisitore gli dica: “Scusa Bigotti: se nessuno ha mai visto il censimento che tu avresti dovuto fare, a che titolo hai incassato 91 milioni di euro? E quei soldi sono finiti per intero nelle tue tasche o li hai divisi con amici, parenti e consulenti?”.
Se ne lamenta a ragione Antonio Fraschilla, il cronista che anni fa ha scoperchiato gli intrecci di questo scandalo. “Su Repubblica in questi anni abbiamo scritto di tutto su questa vicenda nata con il governo Cuffaro, ma nessun partito e nessuna procura è mai intervenuta veramente”, ha scritto l'altro giorno sulla sua pagina Facebook. “Potevano aprire un'indagine, anche a costo di archiviare. Niente. Solo un muro di gomma. Ma come è possibile che in una Regione dove si grida giustamente allo scandalo anche per consulenze di pochi euro, poi su un censimento costato 90 milioni, e mai utilizzato né visto, nessuno dica nulla? Come è possibile?”.
Fraschilla, sant'uomo, si meraviglia anche e soprattutto del silenzio della Regione. Che su questo scandalo, va ricordato, non ha proferito nemmeno una parola, neppure un sibilo, nemmeno un mugugno. Bocche cucite, si scriveva sui giornali al tempo della mafia e dell'omertà. Non ha parlato il presidente Musumeci che, da vecchio uomo di legge e ordine, aveva pur fatto dell'onestà il tema dominante della sua campagna elettorale: teme che un suo passo falso possa impropriamente tirare in ballo Armao, che vanta stretti legami con Berlusconi, e compromettere la vita, già traballante, del suo governo. Più muti che mai i partiti, fatta eccezione per due o tre incursioni a mezzo stampa dei Cinque stelle, tanto bravi nell'abbaiare alla luna ma poco pratici nell'assumere decisioni conseguenti. E ha risposto dicendo che ci penserà su ma non ora, tanto non c'è urgenza, anche il presidente della commissione regionale Antimafia, Claudio Fava, che pure ha avuto il coraggio di rivoltare come un calzino il cosiddetto “sistema Montante”, tutti gli intrecci di potere cioè costruiti in nome di una finta antimafia dall'ex presidente della Sicindustria, finito poi in carcere per le sue avventate operazioni di spionaggio e dossieraggio a carico di chi ostacolava i suoi progetti e la sua ascesa nei palazzi della politica.
Povero, Bonafede. Credeva che lo “Spazzacorrotti” avrebbe portato giustizia là dove non c'era riuscita né la norma sull'abuso di ufficio, né quella sul voto di scambio né tantomeno quella sul traffico d'influenze. Credeva che il trojan, consegnato nelle mani dei nuovi inquisitori incaricati di radere al suolo i corrotti o i presunti tali, fosse lo strumento più adatto per illuminare le stanze opache del potere, per spargere terrore e gogna ovunque ci fosse un appalto, per sputtanare chiunque avesse anche involontariamente avvicinato un consulente o un amministratore caduto nella trappola dei sospetti. Invece in Sicilia – nella sua Sicilia: il ministro arriva da Mazara del Vallo – il Trojan e lo “Spazzacorrotti” hanno subito finora solo uno smacco. E che smacco. Qui pure le pietre sanno che un clan di spregiudicati avventurieri ha realizzato uno sporco affare di 91 milioni: quelli che si scrivono con sei zeri, quelli che al tempo della lira si sarebbero chiamati 170 miliardi. Ma non c'è la traccia di un avviso di garanzia, di un ordine di perquisizione, di un mandato a comparire, di un blitz della guardia finanza, di un'irruzione dei carabinieri, di una rogatoria in Lussemburgo, di un impiegato ascoltato come testimone, di un perito chiamato ad accertare, a valutare, a verificare e riferire. Niente di niente. Al tempo di Giovanni Falcone i magistrati che sapevano come condurre un'indagine seguivano i flussi del denaro e riuscivano quasi sempre a capire in quale palude sfociavano i fiumi della corruzione e del malaffare. Al tempo dell'onestà-tà-tà invece l'unica tirannia che si è imposta è quella del silenzio, della rassegnazione, del tirare a campare, del calati junco che passa la china. Non c'è trojan che la possa scalfire e non c'è “Spazzacorrotti” che la possa intaccare.
Ma non ditelo a Bonafede, per favore. Con la crisi di governo vive già un momento difficile. Risparmiategli almeno quest'altra oltraggiosa delusione.
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