Con radici e senza
H enk Wildschut, olandese, 52 anni, da quindici fotografa campi profughi. Il suo ultimo libro è l'ultima tappa di quella che lui definisce “una trilogia non intenzionale”. Ha iniziato nel 2005 ritraendo le strutture abitative di fortuna di chi fugge dal proprio paese (“Shelter”, 2010). Poi si è concentrato sulla storia e la dinamica di quella città temporanea sorta sulle coste della Manica, ribattezzata The Jungle (“Ville de Calais, 2017 – premiato con l'Arles Prix du Livre). “Rooted”, uscito poche settimane fa e come gli altri due autoprodotto dallo stesso Wildschut, ritrae, invece, piante seminate e accudite dai profughi accanto a tende e rifugi in Francia, Tunisia, Giordania e Libano.
In bottiglie di plastica, barattoli di latta, recipienti di fortuna o in aiuole protette da fantasiosi steccati si fanno spazio piccole piante, fiori colorati, cespugli di spezie fino a veri e propri orti. Il libro si apre con la frase di un bambino siriano: “When I see green, I remember home” e prosegue con l'alternarsi delle immagini a colori e delle pagine di una sorta di diario, che il fotografo olandese ha tenuto perché non sfuggissero circostanze, frasi ascoltate, mutamenti dello strano paesaggio lungo il trascorrere del tempo.
Le fotografie mostrano soltanto le piante, mai chi le ha seminate. L'attenzione è posta sul fatto in sé e riesce a catturarne la potenza vivace. Come a dimostrare, se mai ce ne fosse bisogno, che la fotografia umanista non è per forza quella che racchiude una persona nell'inquadratura, meglio se una donna in pianto o un bambino con il muso sporco. Qui il linguaggio è, nella sua semplicità, più sofisticato. Arriva sì a muovere i sentimenti, ma lo fa in modo più onesto, passando prima dalle stanze del pensiero. Così, il moto delle viscere si fa più profondo e stabile. E per questo meno manipolabile.
Il mondo parla a chi lo guarda
E' la forza della vera fotografia documentaria, scattata con il grande formato, piantati sul cavalletto, che richiede tempi di posa e di pensiero diversi da quelli imposti dalla dittatura dell'istantanea. Di primo acchito, come nel caso di “Rooted”, sembra di trovarsi di fronte a immagini mute. L'inquadratura è ordinaria, i colori e i toni sono piani, nessuna azione viene fermata nel suo svolgersi. La mano del fotografo fa di tutto per nascondere l'artificio che, pure, è in atto. Ogni sforzo è fatto perché sulla pellicola si imprima la cosa così come appare all'occhio. E' il tentativo di un naturalismo che, lungi dall'essere scientista, è convinto che il mondo, nel suo mostrarsi, parli a chi lo guarda.
In “Rooted” viene ritratto un gesto ancestrale: seminare esseri viventi che si radicano nella terra. Una metafora, ma non solo della vicenda storica di queste persone, spesso famiglie e villaggi interi, sradicate dalla tempesta del destino, ma dell'uomo in quanto tale. Si tratta di un bisogno di stabilità che avevano sentito, all'inizio dei tempi, i primi allevatori che si trasformarono in contadini. Da nomadi a stanziali, ponendo le precondizioni per lo sviluppo della civiltà. La metafora delle radici. Della terra che è madre ed è padre: patria. Ma l'immagine del radicamento, in queste fotografie, si riflette nel contrario che se ne sta fuori dall'inquadratura: il profugo, il fuggiasco. Dimensione nella quale, anche noi, a dispetto dei comfort della vita contemporanea, nelle ancora pacifiche democrazie occidentali, possiamo rivederci. Diceva qualche anno fa padre Mauro Lepori, abate generale dell'Ordine dei Cistercensi: “Questa umanità così misera arriva in balìa delle onde per farci vedere la nostra situazione come in uno specchio. I migranti, in fondo, ci rivelano la mancanza di stabilità che non ci permette di offrire loro una dimora”.
Luca Fiore
Il Foglio sportivo - in corpore sano