Le stazioni della disperazione femminile e un po' femminista di “Fleabag”
C' è da scommettere che Phoebe Waller-Bridge, la più chiacchierata attrice inglese del momento – quasi un'ossessione per i media d'oltremanica – sia un'ardente sostenitrice del No Brexit. Eppure per i brits, attenti come sono alla rappresentazione, Phoebe incarna con invidiabile eleganza proprio l'aria dei tempi di questo folle momento storico dell'isola: la maledetta percezione di distinzione, l'indolenza con cui un inglese qualsiasi convive con la sensazione di diversità e con la generica incomunicabilità col resto del mondo che ne discende. Metteteci pure che, magari senza dirlo ad alta voce, la maggioranza degli inglesi di buona famiglia non ha mai accettato l'idea che una sia pur minima parte del proprio futuro possa essere condizionato dai pareri, chessò, del Lussemburgo. Sono i malanni di una democratica modernità mai del tutto digerita. Di quest'essere condannati dalla propria natura – o peggio, della condanna di essere così per natura – la magnifica Phoebe è una splendida rappresentazione stilistica. E come non succedeva dai tempi di Keira Knightley, quando il rinato romanticismo dei millennials dette per un momento una spallata allo yuppismo, è lei la trentenne di talento emblema di uno stato mentale, di un “sono così nonostante me stessa. Tanto vale raccontarlo”. Che PWB abbia assunto le dimensioni messianiche della superstar è apparso evidente qualche giorno fa a Londra, quando la riproposizione teatrale dello spettacolo all'origine della sua carriera si è trasformata in un evento che ha coinvolto giornali (sul Guardian un dibattito di due pagine tra critici pro-contro), talk-show e chiacchericci nei pub giusti di Chelsea. “Fleabag”, sacco di pulci, è un monologo da “ragazza cattiva” originariamente presentato dalla autrice-attrice al Fringe Festival di Edimburgo nel 2013, poi replicato qua e là raccogliendo premi e recensioni entusiastiche, salvo evolversi in una serie televisiva coprodotta da Bbc e Amazon, con due stringate stagioni (6 episodi da 25 minuti l'una) salutate da un successo crescente, consacrato dalle 11 nomination agli Emmy e da un pedissequo remake della tv francese. Lei, geniale, al centro del tutto: una sgraziata, goffa e affascinante ragazzona della buona borghesia, spiantata e speculativa, e la sua vita dramedy, insomma una tragedia ridicola, con una sorella isterica, un padre frigido, un cognato maniaco, un'amica morta, un baretto destinata al fallimento, una galleria di disastrose quanto estemporanee liaison, troppo alcol, tanta smagliante filosofia spicciola e un solo vero amore – ovviamente un recalcitrante prete cattolico. Attorno la solita Londra brusca e distratta dei milioni di solitudini che non s'incontrano, lo stesso tunnel nel quale anni fa gettò un raggio di luce, ad uso del pubblico tv, l'ottimo Ricky Gervais. Tutto ciò, grazie alla qualità di scrittura e al phisique-du-rôle di Phoebe, è piaciuto da impazzire a tutto il pubblico e all'ambiente che fa opinione. E, nel giro di poco, PWB s'è ritrovata davvero sotto la luce dei riflettori, con un twist di carriera inatteso: ha cominciato a farle la corte niente meno che Hollywood, più che per le sue doti di attrice, per la verve inconsueta della sua scrittura. Ad esempio, Daniel Craig ha preteso un contratto per Phoebe, per farle metter mano al copione del “James Bond-25” che evidentemente, a dispetto dei milioni spesi, continua a fare acqua. Solo lei, secondo lo 007 in carica, potrebbe dare allo script quella patina di glamour, ironia e modernità senza la quale lo show è meglio che non vada avanti. E lei non si è negata, complice un bonifico importante, senza timore di imbastardire la sua ascesa. Una disinvoltura che ha il sapore di consapevolezza della propria qualità sociale e professionale, la stessa che ha permesso a Phoebe d'accettare perfino una comparsata nell'ennesimo episodio di “Guerre Stellari”, nella parte di un droide sarcastico e incazzoso, proprio mentre metteva in pista, come sceneggiatrice, un'altra serie tv, “Killing Eve” – guerra privata tra una spia e una killer a base di umorismo nero – che ha fatto sconquassi in Gran Bretagna e da noi è finita confinata sullo streaming di TimVision. Adesso, nella Londra estiva scombussolata dalle prodezze di Boris Johnson, per Phoebe Waller-Bridge è arrivata la consacrazione: un piccolo teatro, il Wyndham's, con biglietti a quasi 200 euro sold out, uno sgabello su un palco vuoto e lei, girocollo bordeaux e mocassini, a ri-raccontare le stazioni della sanguinante disperazione, femminile e un po' femminista, di Fleabag. Stavolta guardando negli occhi il pubblico, proprio come fa nella serie tv, quando abbandona la scena per rivolgersi allo spettatore direttamente nella telecamera, commentando le peripezie della sua orribile vita e chiedendogli: “Trovi sia divertente?”. Accoglienza trionfale, signore pronte a tutto per un selfie con lei, e qualche critico che prova a obiettare che “Fleabag” è soprattutto la passerella di una ragazza fortunata, che parla a un pubblico di privilegiati come lei, quello che può permettersi di concentrarsi sugli alti e bassi della propria vita sessuale. Dimenticando forse questo, in effetti, è più o meno il clou della narrativa femminile di successo degli ultimi secoli. Il cui segreto sta nell'avere il coraggio di dire ad alta voce, e con lo humour necessario, ciò su cui la maggioranza di noi si consuma in silenzio ogni giorno. In più aggiungeteci che la candida Phoebe ci mette un accento inglese da eccellente-educazione-ricevuta che, anche se fa venire i nervi, innegabilmente è una calamita sexy.
Stefano Pistolini
Il Foglio sportivo - in corpore sano