Il processo a Pell è un insulto al diritto più che alla chiesa. L'analisi di Finnis
Roma. John Finnis è un filosofo del diritto dell'università cattolica di Notre Dame e professore emerito di Oxford, dove ha insegnato dal 1989 al 2010, producendosi in una rifondazione del diritto naturale che lo ha reso popolare specialmente fra i conservatori. E' un convertito al cattolicesimo, e nel corso della sua carriera ha articolato posizioni sul rapporto fra l'autorità statale e l'omosessualità che gli sono valse aspre critiche da parte della chiesa del progressismo. Qualche mese fa un gruppo di studenti di Oxford ha lanciato una petizione per spogliarlo del titolo di professore emerito, sulla base del fatto che le sue posizioni “disumanizzano gli omosessuali”. Finnis non ha fatto leva su nessuna delle sue convinzioni politiche, filosofiche e religiose per contestare la condanna del cardinale australiano George Pell a sei anni di reclusione per abusi sui minori, sentenza confermata qualche settimana fa da un panel di giudici della corte d'appello dello stato di Victoria, in Australia. In un commento alla sentenza pubblicato sulla rivista Quadrant, Finnis spiega con argomenti esclusivamente legali perché la condanna di Pell è un disastro giudiziario che dovrebbe fare inorridire non già i sostenitori del cardinale, ma tutti quelli che hanno a cuore lo stato di diritto, il giusto processo, la presunzione di innocenza e altri istituti civili ritenuti sacri fino a quando non vengono usati contro i nemici politici del caso.
Finnis si concentra sui dettagli di un caso costruito attorno a una violenza commessa da Pell su due giovani coristi – uno dei quali nel frattempo deceduto – nella sacrestia della cattedrale di Melbourne alla fine di una messa nel 1996, circostanza nella quale l'allora arcivescovo avrebbe avuto uno spazio di cinque o sei minuti per appartarsi con i due. La critica al processo si articola in tre punti. Nel primo, il giurista parla di una “sequenza logica ribaltata” da parte dell'accusa: l'improbabilità e l'impossibilità del fatto, su cui si poggiava la tesi difensiva di Pell – che asseriva di essere in un altro punto della chiesa durante quei cinque o sei minuti – vengono inopinatamente scollegate dalla protestata falsità dell'accusa. Un ingente numero di testimonianze corrobora l'improbabilità e perfino l'impossibilità del reato, ma queste non vengono usate per confermare o smentire ciò che i difensori del cardinale sostengono, cioè che le accuse sono false: “Considerando la falsità come un argomentazione distinta (e non come la conclusione di altre argomentazioni) la sentenza mostra una profonda confusione riguardo alla logica fondamentale del caso, nega la considerazione razionale della difesa e di fatto ribalta l'onere della prova”.
Il ribaltamento dell'onere della prova è il secondo punto di Finnis, il più problematico dal punto di vista delle garanzie processuali. “La sentenza di Pell – scrive Finnis – dichiara che i suoi autori sono persuasi della veridicità e dell'accuratezza degli accusatori, e lo fa prima di verificare le controprove”. In sostanza, i giudici sono a priori persuasi che gli accusatori dicano la verità – fatto bizzarro per gli standard legali vigenti – e impongono al cardinale il compito di provare la sua innocenza. Quando i suoi avvocati presentano le prove che lo scagionerebbero, questa vengono raccolte e ordinate in modo incoerente – e questo è il terzo punto – indebolendo un impianto difensivo che si basava, appunto, sulla dimostrazione dell'improbabilità – fino all'impossibilità – che Pell fosse effettivamente dove i suoi accusatori dicono fosse in quei cinque o sei minuti. Il tutto rappresentato con inferenze indebite, salti logici e molti “of course” nei quali il giurista ravvisa la disinvoltura di chi sta estendendo una sentenza già scritta nella sostanza. Una procedura che dovrebbe far inorridire i sostenitori della presunzione d'innocenza, principio che a parole piace a tutti, of course.
Mattia Ferraresi
Il Foglio sportivo - in corpore sano