Filo Vals è la prova che non tutte le canzonette dei “figli di” sono da buttare
L' insostenibile peso di un cognome italiano, famoso, s'intende. Ne avevamo parlato seguendo l'esordio non banale di un rapper chiamato Trava, perché il suo cognome completo è Travaglio, come quello di suo padre Marco, davanti a quel bivio tra sacrosanta identità e i conti da fare con la valanga commentatoria, che siccome sei “figlio di”, pagherai, adesso e per sempre. E' così, nella nostra terra dell'espiazione: nasci con l'imprinting di chi ce l'ha fatta, cresci tra risonanze e frequentazioni di un certo genere e ti ritrovi Julian Lennon, o Cristiano De André, o Jakob Dylan, “figlio di”, fortunato ma oberato, comunque coi portoni spalancati e il conto di papà a cui attingere per i primi esperimenti. La storia torna con Filo Vals, ventenne romano che ha scelto di tagliarsi a metà il cognome, dal momento che intero conduce a Pietro Valsecchi, produttore di grande successo in Italia, tra cinema e tv. Filo – Filippo – ha coltivato la voglia d'essere un musicista, facendola convivere con l'imbarazzo di non venire catalogato già ai blocchi di partenza, figlio d'arte d'un creativo tycoon all'italiana. Filo ha saggiamente optato per cambiare aria, studiare in Inghilterra e coltivare la passione alla fonte d'ispirazione. Che è poi quella del cantautorato soffice, intimista e globalista del nuovo millennio, che ha sfornato long seller come Paolo Nutini, Jack Johnson o Asaf Avidan, un filone di canzone “affettiva” che diventa inseparabile compendio per chi la fa propria. Del resto bisognerebbe dare per scontato che la società dello spettacolo produca, all'interno delle famiglie regnanti, dei pargoli che della materia si nutrono da subito e che, quando sentono l'impulso di metterci del proprio, sanno istintivamente come andare allo scopo: nel caso di Filo, mettendo in circolazione quattro canzoni sui siti streaming, tre delle quali accompagnate da un videoclip autoprodotto, già con la consapevolezza di chi ha familiarità col linguaggio di una comunicazione ammiccante e accessibile. Visionandoli su YouTube, si capisce che a Filo piace viaggiare, che ha un debole per farsi riprendere mentre suona la chitarra in riva al mare e che ha una timidezza innata che convive con uno spontaneo piacionismo, lo stesso che gli fa scegliere come protagonista della storia di “Occasionale” una modella di grido come Chiara Scelsi, incastonata in una bizzarra serie di cameo vip, che svariano dall'ex calciatore Fabio Grosso (a cui affida i versi “E' stato occasionale/come l'uscita dell'Italia dal Mondiale”), a Vittorio Sgarbi (“come un razzista/che fa l'intellettuale”), allo chef Barbieri (“come un vegano/che poi mangia del maiale”), in un pastiche che ha soprattutto la prerogativa d'appoggiarsi su un pezzo-killer.
“Occasionale” ha ottime chance di diventare un tormentone da cuffiette, trampolino per l'album che Vals sta per pubblicare – sulla sua etichetta, la Papaya Records – dal probabile titolo “A Wonderful Adventure”, che promette brani in italiano, inglese, spagnolo, francese, in omaggio alla vocazione mondialista. Morale della storia? Conviene andare oltre la constatazione infastidita che esistono i “figli di” e che hanno indubitabili privilegi. Vale la pena d'andare a vedere cosa c'è dietro, senza dilungarsi sui pregiudizi.
Nel caso di Filo Vals la sensazione è di avere a che fare con una scrittura che sta maturando bene e che racconta di uno stile di vita “segno dei tempi”, democraticamente disimpegnato, accessoriato di consapevolezza light, nel quale si viaggia molto e low cost, s'inseguono fidanzamenti volatili e si storicizza il tutto nei tondini social, ripostiglio delle ultime coscienze civili, di Greta, delle buone cause e della morte alla plastica. Pleonastico star lì a criticare.
Di tutto ciò Filo è un possibile cantante, per caso italiano, con la barba sfatta e la faccia giusta e un po' sofferta, con una voce pastosa che trova posto nelle categorie di gusto nostrano – diciamo tra Luca Carboni e Tommaso Paradiso – e con una leggerezza del tocco seducente e paracula quanto basta. Farina del suo sacco, in quanto venuto su in un mondo nel quale spettacolo, arte e cultura sono impastati dalla colla del business, perché solo così si può trasformare una vocazione in un mestiere duraturo.
Se si è visto come si fa, se si può guardare a modelli assodati, è più facile riuscirci. E' il segreto delle dinastie. Che in tempi di show business continuato, possono transitare pure per le canzonette.
Stefano Pistolini
Il Foglio sportivo - in corpore sano