IL TOTALITARISMO DEI BUONI
Nel suo ultimo libro, White, presto in uscita in Italia per Einaudi, Bret Easton Ellis parla di autoritarismo, di fascismo, di totalitarismo, di censura, di superiorità morale, di ossessione da controllo, di pressioni dirette e indirette per conformarsi al canone ideologico del momento. A volte sembra di avere fra le mani le pagine di un samizdat sfuggite chissà come ai controlli della polizia politica, ma incastonate dentro un immaginario hollywoodiano e ultra-pop, più Tom Wolfe che Solzenicyn. Il regime che il romanziere americano denuncia non è quello dei costruttori di muri e dei truci promotori di un presunto clima da anni Trenta. E' quello degli altri, della resistenza progressista, del liberalismo bacchettone che si atteggia a vittima delle pulsioni barbariche e del clima d'odio. L'obiettivo polemico è il regime dei buoni, e White è una cronaca dall'inferno delle loro buone intenzioni. Ed è lacerante e repulsiva almeno quanto certe scene di American Psycho o Glamorama, e infatti per l'autore questo libro non è una parentesi saggistica fra opere di fiction, ma la continuazione del suo lavoro di romanziere con un altro registro. Ellis gode di una posizione vantaggiosa per avanzare osservazioni altrimenti indicibili. Per un codificato meccanismo dell'egemonia culturale, certe idee diventano presentabili se a esprimerle è qualcuno che gli arbitri del dibattito si trovano in difficoltà a squalificare: lo scrittore gay, la femminista pentita, il prete progressista e così via. Anche questo è un portato della identity politics che lo fa imbestialire: chi esprime un'idea è più importante dell'idea stessa.
Una delle idee di Ellis è che questo regime ha preso il potere trasformandoci tutti in attori. In un mondo pieno di palchi digitali – i social media e non solo – tutti recitano una parte, dove il talento fondamentale dell'attore è quello di fare tutto ciò che è necessario per piacere al pubblico; il quale a sua volta chiede che la performance sia perfettamente conforme ai precetti ideologici che già abbraccia e che segnano il confine fra l'accettabile e l'inaccettabile, fra la civiltà e la barbarie. Tutto il resto è oppressione, violenza (al pari di quella fisica) e intelligenza con il nemico, roba meritevole di boicottaggio e censura nella forma del de-platforming, la tecnica preferita dalla cosiddetta cancel culture. Se il regista Erroll Morris fa un documentario-intervista con Steve Bannon, con l'ambizione di capirlo e non appena di crocifiggerlo, l'opera non deve essere distribuita; se uno scrittore ben inserito nella società hollywoodiana va a cena con amici conservatori e dà conto delle loro legittime posizioni con una serie di tweet, va condannato per il solo fatto di averli ascoltati; se Kanye West elogia Donald Trump avrà certamente sbroccato, serve un trattamento sanitario obbligatorio, la camicia di forza, la revoca della legge Basaglia.
In uno dei passaggi più graffianti, Ellis scrive: “Pare che siamo entrati precariamente in una specie di totalitarismo che detesta la libertà di parola e punisce le persone se rivelano il loro vero io”. In un'intervista concessa al Foglio, lo scrittore spiega: “Ho scritto di una specie di totalitarismo, non del totalitarismo nel suo senso storico. E ho scelto di usare questo termine perché è così che mi sento: sotto controllo di un regime. Oggi ci sono una serie di regole che un'artista deve seguire, e se non le segue viene cancellato o messo a tacere. Tutto deve essere coordinato da una certa sensibilità. Questo meccanismo si vede nelle case editrici già oggi. Ci sono editor che scandagliano i manoscritti alla ricerca di elementi che potrebbero offendere i lettori, che potrebbero farli arrabbiare, li evidenziano e si discute su cosa fare. Sta succedendo per davvero, in questo momento. I guardiani della cultura dominante stanno attivamente cancellando le opinioni degli artisti perché non sono d'accordo con loro oppure perché non sono in linea con l'‘ideologia progressista' del momento, che fra l'altro molte persone rifiutano”, dice Ellis, che nel libro dà una definizione succinta del contenuto di questa ideologia progressista: un pensiero che “propone inclusività universale eccetto per quelli che osano fare domande”. Chi s'azzarda “è in qualche modo fottuto”.
L'apparente paradosso è che la costrizione ideologica su larga scala avviene nella patria della libertà, nel regno che ha sacralizzato l'individuo e il suo diritto di essere se stesso, secondo la formula retorica cara alle soubrette di tutte le latitudini. Qui Ellis ravvisa una sterzata nella cultura americana: “Questa è una forma totalitaria recente, che non ho mai sperimentato nella mia vita prima. La libertà di espressione e di opinione è stata sempre esaltata qui, ma non è più così. E non riesco a capire perché non c'è una reazione a quello di cui tutti sembrano lamentarsi a parole”. Formula alcune ipotesi intorno ai motivi del cortocircuito: “La risposta ovvia è l'avvento dei social, con i quali tutti si sono convinti di avere una voce speciale. Le barriere sono state distrutte, tutti si sono convinti di essere grandi scrittori e che le loro opinioni contassero quanto quelle di tutti gli altri. Abbiamo assistito al collasso di un sistema in cui c'erano dei gatekeepers, c'erano degli scrittori che erano effettivamente scrittori, perché avevano delle cose da dire e sapevano scriverle.
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