La favola delle corporation progressiste finisce (male) a Hong Kong
Roma. La liberale Nba si è avvitata in modo imbarazzante intorno a un tweet in favore dei manifestanti di Hong Kong, Apple ha fatto un inchino rituale al regime cinese ritirando una app che traccia i movimenti della polizia nella città semiautonoma in rivolta, la Activision Blizzard ha cacciato un giocatore professionista di Hearthstone che aveva offerto parole di sostegno alla protesta, e la tripletta dell'ipocrisia corporate americana ha sgonfiato d'incanto il mito del “woke capital”. Che cos'è il “woke capital”? E' la teoria, o il pregiudizio interiorizzato, che con le loro scelte di business e le prese di posizione pubbliche le grandi aziende americane esprimano valori perfettamente allineati all'agenda progressista.
Non che qualcuno abbia mai avuto dubbi circa il motore immobile che legittimamente muove le corporation – il profitto – ma il comportamento eticamente sensibile assunto da molti grandi gruppi ha consolidato l'idea che gli affari potessero e dovessero andare a braccetto con la promozione dei diritti, la difesa delle minoranze, la diffusione della democrazia, il rispetto dell'ambiente, l'esaltazione dei valori liberali, la pace universale e molte altre belle cose. Il capitale aveva la possibilità di abbracciare la wokeness, la risvegliata sensibilità per la giustizia sociale, e questo fortunato allineamento di interessi e valori è stato interpretato con lo zelo di chi obbedisce a un imperativo categorico. Il meccanismo ha funzionato senza particolari intoppi fino a quando le vittime designate dell'etica corporate sono stati conservatori, sovranisti, tradizionalisti e altri settori politico-culturali non woke. Disney e Netflix che minacciano di chiudere le operazioni in Georgia in risposta a una proposta di legge restrittiva sull'aborto sostenuta dal governatore, Apple che si scaglia contro la legge sulla libertà religiosa dell'Indiana e le varie opere di rieducazione lgbt in stile Barilla sono state accolte come scelte di responsabilità civile e alto valore morale. Chi ha fatto notare che sventolare bandiere arcobaleno con una mano e fare affari con l'Arabia Saudita con l'altra configura una contraddizione alla lunga intenibile è finito in un coro di minoranza, catechizzato dai manager woke sulle necessità di fare qualche compromesso per stare dalla parte giusta della storia.
La Nba, che in quanto lega che difende gli interessi delle squadre di basket è una potente corporation globale, è stata particolarmente attiva nell'opera di evangelizzazione. Il commissario, Adam Silver, nel 2014 ha bandito a vita dalla lega il proprietario dei Los Angeles Clippers, colpevole di aver fatto commenti razzisti, e nel giro di un mese ha venduto la squadra. Tre anni dopo ha tolto l'All Star Game alla città di Charlotte dopo che la North Carolina ha passato una legge che diminuiva la protezione della comunità gay. Non ci ha pensato un attimo, Silver, difensore degli oppressi. Quando però il direttore generale degli Houston Rockets ha twittato in sostegno ai manifestanti di Hong Kong e i cinesi hanno protestato, lui ha detto che si tratta di una “serie di questioni complesse”, ha fatto non una ma due dichiarazioni a metà fra la scusa e l'autoaccusa e ha costretto il colpevole a inchinarsi davanti a un regime dove il basket americano è considerata una religione almeno dai tempi di Mao. Ne è nata una disputa che ha portato, fra gli altri dissapori, all'oscuramento televisivo delle partite di pre-season che si giocano in Cina. Blizzard è riuscita a fare perfino di peggio con il giocatore Chung Ng Wai, che per le stesse posizioni politiche ha visto anche la confisca dei premi che aveva ricevuto per meriti di gioco.
Come ha sintetizzato il giornalista conservatore David French: “La Cina ha una tale influenza su una azienda americana da indurla a compiere azioni incredibilmente antiamericane”. L'ipocrisia era già parte del gioco delle aziende ammantate di progressismo, ma ora che queste danneggiano i manifestanti per la democrazia di Hong Kong il sistema del “woke capital” ha finito per svelarsi per ciò che è. E anche i progressisti se ne accorgono, accodandosi a una protesta che finora era appannaggio esclusivo degli avversari politici. Le voci contrariate ora si leggono sul New York Times, su Rolling Stone, su Vox e pure su Jacobin. Hanno notato che del “woke capital” è rimasto soltanto il “capital”.
Mattia Ferraresi
Il Foglio sportivo - in corpore sano