Nobel dello sbadiglio

Mariarosa Mancuso

    U na vigilia trascorsa cercando di impratichirsi con la cinese Can Xue, il keniota Ngugiĩ wa Thiong'o, Maryse Condé che viene dall'isola di Guadalupe, il coreano Ko Un. I giurati del Nobel avevano promesso meno Europa, e ovviamente più donne (c'erano le molestie da risarcire). Il premio l'anno scorso non è stato assegnato, e ora sono in due a entrare nell'albo d'oro, per sempre orfano di Philip Roth (sul generoso assegno sorvoliamo, ormai è tornata a girare la frase: “Sterco del diavolo”). Quando i giurati del Nobel promettono qualcosa, non finisce mai bene. Per esempio: avevano promesso di trascurare la letteratura americana – troppo giovane, deve ancora maturare – e mantengono l'impuntatura a rischio del ridicolo.

    Meno Europa, e invece hanno puntato al centro dell'Europa. Hanno scelto la polacca Olga Tokarczuk per il 2018 e l'austriaco Peter Handke per il 2019 (forse sarebbe stato meglio il contrario: una scrittrice per il Nobel senza obbligo di risarcimenti, e un maschio per l'edizione sospesa, proprio non riescono a non farlo sembrare un contentino). Secondo i pronostici ragionati di New Republic, la prima era tra le favorite, data dagli scommettitori 8 a 1. Il secondo era nella categoria “Nessuna speranza per quest'anno”, e tra parentesi veniva ricordata la partecipazione di Handke al funerale di Slobodan Milosevic. In entrambi i casi, viene confermata l'insofferenza dell'Accademia svedese per il romanzo – lasciamolo praticare agli americani, si sa che sono indietro nella scala evolutiva – e la predilezione per le istanze: sociologiche, politiche, femministe, migratorie.

    Le motivazioni sono sempre arzigogolate, rispettose di quel modo di avvicinarsi alla Letteratura con la maiuscola da una parte, e il più completo disinteresse per i lettori dall'altra. Come se esistessero soltanto gli scrittori, i critici che danno le pagelle, e niente in mezzo. Per Olga Tokarczuk, si parla di “immaginazione narrativa e di passione enciclopedica, che celebrano lo sconfinamento come forma di vita”. “I vagabondi” è l'ultimo suo libro, pubblicato da Bompiani (i precedenti erano “Nella quiete del tempo” e “Guida il tuo carro sulle ossa dei morti”, entrambi Nottetempo).

    Poco stanziali erano i genitori, vagabonda è la scrittrice: “Le mie radici erano sempre tropo corte. Bastava un soffio di vento per farmi ribaltare. Traggo le mie energie dal movimento”. E via con una dettagliata cartella clinica, un po' di autobiografia, e un accumulo di viaggi, esperienze, riflessioni, incontri con sconosciuti e giravolte attorno a personaggi storici, disegni di fiumi e piante di città, smarrimenti. Un certo desiderio di rendersi irreperibili: “Ogni volta che viaggio scompaio dalle mappe. Nessuno sa dove sono”. E una tentazione di pensarsi come una particella quantistica, spersa tra il punto di partenza e il punto d'arrivo. Nulla ci guida da una pagina all'altra, e sono quasi quattrocento, se non la simpatia – o l'antipatia – per la voce narrante. Ma si sa, viviamo in tempi frammentati, le Grandi Narrazioni non esistono più.

    Gli scrittori però potrebbero sforzarsi (si dice che anche i tempi andati fossero piuttosto confusi). Peter Handke già da tempo ha abbandonato i personaggi, e la tensione di “Prima del calcio di rigore” – tutto di testa, ma qualcosa succedeva – per raccontarci le sue opere, i suoi giorni, le sue matite. Interessanti, per carità. Ma per noi fa da aggravante la lunga collaborazione con Wim Wenders, e certi film – “Falso movimento”, “Il cielo sopra Berlino” – che furono di culto e sono da sbadiglio.